La sensazione passò. Bernard trasse un profondo respiro. Niente era cambiato, alla fin fine. Il senso di solitudine, di separazione, non era stato altro che uno scherzo della fantasia.
«Guardate l’oblò!» ansimò Stone. «Le Stelle… non ci sono più!»
Bernard piroettò sul sedile. Era vero. Un attimo prima l’oblò, ovvero uno schermo televisivo di dodici pollici che riportava le immagini colte all’esterno dell’astronave, rimandava l’abbagliante visione delle stelle. Interminabili cascate di luce avevano scintillato contro il buio totale del vuoto. Sullo sfondo della Via Lattea erano apparsi alcuni pianeti: il rosso Marte, Venere simile a una gemma…
Ora tutto era scomparso, stelle, pianeti, cascate di luci sfolgoranti. Lo schermo rimandava solo un grigiore informe. Pareva che l’Universo fosse stato cancellato con un colpo di spugna.
Il segnale luminoso sulla paratìa tornò ad accendersi. Stone premette il pulsante di apertura e stavolta il Comandante in persona, John Laurance, entrò nello scompartimento passeggeri.
«La conversione è riuscita in pieno, signori. Ciò che vedete sullo schermo è un Universo completamente deserto nel quale noi rappresentiamo l’unico frammento di materia.»
«E come fate per la rotta?» chiese Stone.
Laurance diede una scrollata di spalle. «A lume di naso. Le astronavi telecomandate che sono state inviate nell’iperspazio in fase sperimentale hanno viaggiato lungo determinati vettori tracciati in precedenza, e sono riemerse in determinati luoghi. In mancanza di punti precisi di riferimento, non possiamo fare altro che seguire l’intuito.»
«Non mi sembra un metodo molto efficiente per raggiungere un obbiettivo preciso» disse Dominici.
«Non lo è, infatti» ammise Laurance. «D’altro lato, non abbiamo altra scelta.»
Bernard osservò attentamente il Comandante. La stanchezza traspariva da ogni lineamento del suo volto. Gli occhi erano iniettati di sangue. Bastava osservarlo per capire che era abituato a sole tre ore di sonno su ventiquattro, ma era altrettanto evidente che da parecchio tempo non riusciva a concedersi nemmeno quelle tre ore.
«Sembrate affaticato Comandante» disse il sociologo-
Laurance tornò a scrollare le spalle. «Lo sono, dottor Bernard. Tutti i miei uomini sono spossati dalla stanchezza. Ma non abbiamo scelta.»
«Mi chiedo se è possibile governare un’astronave tanto complessa in così evidenti condizioni di stress psico-fisico.»
«Il Tecnarca evidentemente pensa di sì» replicò Laurance con una nota quasi amara nella voce. «Il Tecnarca, evidentemente, aveva anche una fretta incredibile di rispedire l’astronave nello spazio.»
«Noi abbiamo fiducia nel Tecnarca» osservò Dominici. «McKenzie ha una testa solida sulle spalle, forse ancora più solida di quella del vecchio Bengstrom. Deve avere avuto ottime ragioni per insistere tanto sulla necessità di fare presto.»
«Anche il Tecnarca McKenzie è un comune mortale» obiettò Havig. «Può sbagliare come chiunque altro.»
Dominici inarcò un sopracciglio. «Havig, conosco persone che cadrebbero in uno stato catatonico se qualcuno facesse un apprezzamento simile in loro presenza su qualcuno degli Arconti.»
«Io non ho un rispetto eccessivo per questi signori» disse imperterrito il Neopuritano. «In fondo, sono stati scelti tra gli uomini in tutto e per tutto identici.»
«Già» osservò Bernard. «Scelti in età giovanissima e addestrati per decenni nell’arte di governare, prima di accedere finalmente ai rispettivi Arconati. Senza dubbio è un metodo ottimo, il primo sistema veramente saggio di governo che la Terra abbia mai avuto. Ma non credo che il Comandante Laurance sia venuto qui per discutere con noi sulle qualità del Tecnarca.»
«No, infatti» disse Laurance con un sorriso pacato. «Sono entrato per dirvi che tutto procede bene, e che tra mezz’ora si mangia, e che secondo i calcoli dovremmo essere nelle vicinanze della Stella NGCR 185143 tra… diciamo, circa diciassette ore. Minuto più, minuto meno.» Laurance fece una breve pausa, quasi per dar tempo al piccolo gruppo di passeggeri di sentire in pieno la sua autorità. Poi aggiunse: «Ah… mi diceva Clive che siete tutti un po’ irritabili. Che avete avuto perfino una discussione piuttosto accesa.»
Bernard arrossì. Era sicurissimo di discernere una vaga traccia di disprezzo nello sguardo di Laurance. Il disprezzo dell’uomo degli spazi, temprato da una vita dura, per quel gruppo di accademici senza midollo che affollava la cabina.
Tra l’imbarazzo generale, si udì, come sempre, la voce conciliante di Stone. «Abbiamo avuto una piccola divergenza di opinioni, Comandante. Piccolezze, questione di punti di vista…»
«Capisco, signori» disse Laurance in tono blando. Ma dietro quella benevolanza c’era un comando imperioso. «Posso ricordarvi che vi è stata affidata una grave responsabilità? Spero che possiate comporre le vostre… ehm… piccole divergenze prima di raggiungere la vostra destinazione.»
«Per la verità, le abbiamo già composte» garantì Stone.
«Ne sono lieto.» Laurance si avviò alla porta. «Nell’armadietto dei medicinali, laggiù alla mia sinistra, troverete dei tranquillanti, nel caso la vostra «irritabilità» dovesse costituire, alla lunga, un problema serio. Signori, vi aspetto nel saloncino tra mezz’ora.»
Seguì un momento di silenzio imbarazzato dopo l’uscita del Comandante. Poi Dominici imitò Laurance: «Posso ricordarvi che vi è stata affidata una grave responsabilità?» disse sorridendo. E proseguì: «Il nostro Comandante ha lo stesso stile… regale del Tecnarca. Riesce a farti sentire alto un metro.»
«Forse Laurance è un addestrato che non è riuscito a ottenere il punteggio per diventare Arconte» suggerì, calmo, Stone. Essendo un addestrato anche lui, per l’Arconato degli Affari Coloniali, doveva sapere qualcosa sui maneggi che avvenivano per conquistarsi i posti-chiave.
Ma Bernard lo smentì. «No, Stone, mi sembra impossibile. McKenzie non avrebbe mai scelto un… silurato per una faccenda così importante. Si sarebbero scatenate troppe rivalità, troppe opposizioni. No. Però, e possibile che Laurance venga addestrato per le prossime elezioni. Per quel che ne sappiamo noi, potrebbe anche essere stato prescelto per succedere a McKenzie un giorno o l’altro.»
«E McKenzie avrebbe rischiato il suo selezionatissimo successore in una impresa così pericolosa?» obiettò Dominici.
«Un Tecnarca deve forgiarsi proprio sulla pratica del rischio» osservò Havig. «Se Laurance non potesse sopravvivere a un viaggio nello spazio, potrebbe sopravvivere alle fatiche di una carica pubblica così importante? Questo doppio viaggio potrebbe essere il suo banco di prova.»
«Già, forse non avete torto» ammise Stone.
Nessuno avanzò altre ipotesi. La tensione e l’incertezza per l’incarico che li aspettava rendeva i quattro parlamentari irrequieti e pensosi. La conversazione languiva.
Trascorsa la mezz’ora i quattro si recarono a prua per il pranzo. Il menù, a base di prodotti sintetici, era stato preparato con cura da Nakamura ed Hernandez, che avevano una vera passione per la tavola. Dopo mangiato, i passeggeri se ne tornarono nella loro cabina. Avevano davanti ancora sedici ore, sedici ore nel grigio uniforme iperspazio. Il tempo non passava mai; tutti avevano l’impressione di dover viaggiare per sedici anni.
Bernard si sistemò nella sua brandina anti-accelerazione e tentò di leggere: inutilmente. Timori improvvisi lo afferravano, s’insinuavano tra la sua mente e il libro. Le parole danzavano sui fogli, e il ritmo delicato dei versi classici di Suyamo si perdevano in una confusione senza senso. Disgustato, Bernard ripose il libro con un colpo secco.
Chiuse gli occhi. Dopo un po’, la babele dei pensieri si allentò, ed egli crollò in un sonno leggero e agitato che si fece via via più profondo.