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Cercò di ragionare con calma. Il santuario doveva trovarsi in un luogo poco accessibile, come i precedenti, e una volta ottenuta la pietra Nihal e Sennar avrebbero preso la via più breve per passare il confine della Terra della Notte. Avrebbe potuto raggiungerli in quella Terra. Suo padre era fuggito da là quando lui era ancora un bambino e gliela descriveva spesso nei suoi racconti. Laio era abbastanza sicuro di potersi orientare. Consolato da quel pensiero, procedette verso i Monti della Sershet.

Iniziò la scalata quattro giorni dopo la partenza. Rammentava per sommi capi come funzionavano i valichi; Ido gliene aveva parlato molto tempo prima, mentre lui gli lucidava l’armatura. Il ricordo dei racconti dello gnomo, però, erano vaghi e contraddittori, così alla fine Laio decise di gettarsi sul primo passo che incontrò. Fu proprio questo che lo tradì.

Galoppò rapido verso il valico, senza prendere precauzioni. Quando lo raggiunse imperversava una bufera e Laio non riuscì a distinguere il muro fortificato che gli si parava di fronte. Il passo gli sembrò in buone condizioni, così ringraziò la sua buona sorte e spronò il cavallo.

Procedeva spedito, quando tutto d’un tratto si imbatté in una pattuglia di fammin che ispezionava le pendici della montagna.

Laio ebbe appena il tempo di vedere i nemici che avanzavano verso di lui, quindi si diede alla fuga. Il primo a essere abbattuto fu il cavallo, ma lo scudiero non si perse d’animo. Cadde a terra, si rialzò e iniziò a correre a perdifiato su per la montagna, la spada in pugno. L’ultima volta che aveva combattuto era stato a casa del padre, quando Pewar l’aveva costretto a duellare contro uno dei suoi soldati per convincerlo a diventare Cavaliere. Cercò di non scoraggiarsi e strinse con più forza la spada. Se fosse morto in quel luogo, tutto sarebbe stato inutile.

La sua corsa ebbe fine ai piedi di una parete rocciosa. Non c’era speranza di valicarla. Restava un’unica cosa da fare: Laio si voltò e si scagliò sui suoi inseguitori. Riuscì a ferirne uno, ma in breve fu sopraffatto; sentì la lama di una spada ferirgli una spalla e un dolore lancinante attraversarlo da capo a piedi. Svenne e fu in potere dei nemici.

12

Nel deserto

Nihal si era spesso chiesta come fosse la sua Terra e si era convinta che fosse un luogo meraviglioso, pieno di boschi e di fonti di acqua pura, dove il sole splendeva sempre e la primavera era eterna. A volte, in sogno, aveva visto panorami, città, maestosi palazzi. Quel che si presentava ai suoi occhi non poteva essere più lontano da ciò che aveva immaginato.

Ai suoi piedi si stendeva una sterminata pianura di un colore giallo spento, in mezzo alla quale spiccavano agglomerati informi di costruzioni, che volevano assomigliare a città, ma non erano altro che una grottesca caricatura. Erano collegati da strade bianche, larghe e dritte, a formare una ragnatela che feriva la terra. Da più punti si alzavano fitte colonne di fumo che appestavano l’aria. Qualche macchia di alberi si faceva largo in quella desolazione, ma erano di un verde smorto e agonizzante.

Nihal spaziò con lo sguardo su quel paesaggio. Non c’erano altro che desolazione e sconfortante monotonia. A est, si stendeva molle il deserto, che allungava le sue mani sabbiose verso la pianura. A ovest, si notava una vasta zona verdognola, segnata da larghe pozze nere. Una palude.

Fu lì che Nihal scorse qualcosa che attirò la sua attenzione. Strane costruzioni bianche si stagliavano su quel verde malato. Non seppe perché, ma le fecero tornare alla mente qualcosa di noto. Chiuse gli occhi e sul nero delle palpebre si affollarono i ricordi. Vide la Terra dei Giorni, com’era stata cinquant’anni prima, quando ancora non conosceva la furia dei fammin e la crudeltà del Tiranno. Vide una terra rigogliosa, ricca di foreste, alternate a vaste pianure dove i fiori dipingevano un mosaico di colori. E c’erano molte città, bianche alte e splendenti, con pinnacoli. In fondo, a sud, si intravedeva un lago, nelle cui acque il cielo si specchiava tanto limpido che sembrava che un pezzo del firmamento fosse stato precipitato sulla Terra dagli dèi come dono a quel popolo operoso. E boschi ovunque, rigogliosi, in tutte le tonalità del verde: cupo dove la vegetazione era più fitta, chiaro dove gli alberi avevano da poco messo le foglie, color smeraldo dove l’acqua fluiva dalle sorgenti. Quella era la Terra dei Giorni, la Terra in cui i suoi antenati avevano vissuto per secoli, la Terra che lei sentiva di amare e a cui sentiva di appartenere. Era il luogo dove non poteva sentirsi straniera.

Sono a casa... finalmente sono a casa...

Poi aprì gli occhi e la realtà ebbe il sopravvento. Nulla di quello che aveva visto esisteva più. I boschi erano stati divorati dal deserto, abbattuti dai fammin per costruire armi e far posto alle caserme. I prati e i fiori erano stati soffocati dal fumo. L’acqua pura e l’aria limpida erano state risucchiate dal Tiranno. Anni di dominio di quel mostro avevano spazzato via tutto quanto vi era di bello in quella regione, neppure il ricordo era rimasto. Gli unici brandelli di memoria erano affidati a Nihal, che poteva vedere quei luoghi con lo sguardo di chi un tempo vi aveva vissuto.

«Nihal, che hai?» chiese Sennar preoccupato.

Nihal si riscosse. Sentì le guance bagnate e si accorse di aver iniziato a piangere. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano e indicò lontano, verso la palude. «Là sorgeva Seferdi, la capitale, la Bianca. Si diceva che il cristallo del palazzo reale fosse il più lucente di tutto il Mondo Emerso e che lo si vedesse brillare a leghe di distanza.» Indicò un altro punto. «Laggiù c’era la Foresta di Bersith, che Nammen amava.»

«Tu come lo sai?» chiese Sennar in un sussurro.

«L’ho visto, tramite gli spiriti. Che hanno fatto della mia Terra?»

Sennar andò da lei e la abbracciò.

Per scendere a valle presero ogni precauzione, cercarono i sentieri meno battuti e le vie più impervie. Avrebbero allungato il cammino, ma era il modo più sicuro. A quel che avevano visto, l’immensa pianura che ora era la Terra dei Giorni brulicava di fammin.

Impiegarono un giorno in più di marcia e quando calò la sera si rifugiarono in una caverna buia e umida, che avevano individuato nel fianco della montagna. Lì Nihal si apprestò a interpellare il talismano. Le fu difficile concentrarsi, perché le voci che le riempivano la testa erano diventate incessanti. Alla fine riuscì a vedere la direzione da seguire.

«Nel deserto, un palazzo... ancora a est.»

«Fantastico, questa Terra è tutta un deserto...» commentò Sennar. «Soltanto per raggiungere questo maledetto posto ci abbiamo messo due settimane. E si gela, nonostante sia primavera.»

Decisero che avrebbero costeggiato le montagne fino a lasciarsi alle spalle le città e raggiungere le prime propaggini del deserto. Durante i primi giorni di cammino si sentirono sicuri, sembrava che a ridosso dei Monti della Sershet non vi fossero né guardie né villaggi, solo zone desolate.

Col passare del tempo, Nihal era sempre più scostante e distratta. Quando Sennar cercava di rivolgerle la parola, la mezzelfo rispondeva a monosillabi. Non riusciva più a scacciare le voci, le parlavano in continuazione. Era come un canto, un suono ritmato che scandiva i suoi passi e di cui spesso non capiva neppure il significato. Erano parole, voci, sospiri, urla a volte, frasi sconnesse che raccontavano storie di morte e stragi. Quando calava la notte e riusciva ad assopirsi, i sogni la tormentavano al punto che aspettava con ansia i suoi turni di guardia.

Quando Nihal immaginava il deserto, pensava a tramonti vermigli su mari di sabbia increspata dalle dune, a un luogo desolato, ma di una bellezza particolare e selvaggia.

Il luogo in cui giunsero all’alba del quinto giorno di marcia, però, era ben diverso. Qua e là si ergeva qualche duna, ma per lo più era un terreno duro e arido, ricoperto di ciottoli grigi. Anche la scarsa vegetazione aveva un che di minaccioso. Erano piante marroncine o verde acido, ricoperte di lunghe spine e di strani fiori. Si allungavano verso il cielo plumbeo in forme grottesche e proiettavano sul terreno ombre lugubri.