Faceva freddo. Il sole non riusciva a fendere la coltre delle nubi e le ore si susseguivano identiche: non vi erano cambiamenti nella luminosità del cielo. L’alba si manifestava con un triste chiarore pallido a est, che tingeva appena di bianco le nubi grigie, poi la giornata si srotolava fra la perenne penombra delle nubi e lo stridore dei corvi; infine arrivava uno squallido tramonto giallino, che si portava via quel po’ di luce che aveva illuminato le ore diurne. Le notti erano gelide e silenziose.
Di lì a tre giorni i vettovagliamenti finirono e dovettero iniziare a cibarsi delle radici che avevano raccolto al limitare del deserto. Avevano ancora acqua, ma non sarebbe durata più di una settimana e loro non avevano idea di quanta strada avessero ancora davanti. Ovunque guardassero c’erano solo deserto, ciottoli e quelle maledette piante contorte, che sembravano ridere di loro.
Lentamente, persero la cognizione del tempo. Non sapevano più da quanto stessero vagando per quel deserto. Le notti si susseguivano ai giorni, la luce diminuiva e aumentava, ma nessuno dei due avrebbe saputo dire dove fosse l’est, o l’ovest. Erano nel bel mezzo del nulla. Nihal era sul punto di impazzire e Sennar si sentiva impotente.
«Non un passo di più!» urlò a un tratto Nihal. Cadde in ginocchio. «Portami via da questo posto! Portami via! Falli tacere! Tacete!»
Sennar si gettò su di lei e la abbracciò. In quel momento, un vento gelido si alzò e piombò rapido sul deserto.
«Dobbiamo allontanarci da qui! È una specie di tempesta!» gridò Sennar. Nihal restò a terra, come se non lo sentisse. «Ti prego, alzati!» insistette il mago, ma lei era immobile.
Sennar allora la prese tra le braccia e iniziò a camminare alla cieca nel vento. La polvere che si era alzata gli impediva di vedere dove andava e non poteva neppure recitare una formula per orientarsi, perché non aveva la più pallida idea di che cosa cercare.
«Tieni duro! Vedrai che passerà presto» la esortò, senza ottenere risposta. «Parlami! Dimmi qualcosa!»
Sentì soltanto una mano fredda stringergli la casacca vicino al petto.
13
Thoolan o dell’oblio
Sennar e Nihal furono travolti dalla tempesta. In pochi minuti tutto si tinse del grigio della polvere.
Era impossibile proseguire. Sennar andava avanti alla cieca e trascinava con sé la ragazza, che sembrava aver perso conoscenza. Alla fine il mago cadde in ginocchio e pensò che non restava nulla da fare se non lasciarsi seppellire dalla sabbia. Poi, una flebile voce lo chiamò.
Sennar abbassò il capo e scoprì che era Nihal a parlare, in tono tranquillo. «Sento una gran pace... va’ avanti, dritto davanti a te.»
Il mago capì che dovevano proseguire. Così si fece forza e riprese ad avanzare.
«Avanti... ancora... sento che piano piano la testa si svuota...» continuò Nihal.
Alla fine anche a Sennar parve di intravedere qualcosa in fondo a quel grigio, una luce. Il vento a poco a poco si fece meno teso, poi cessò del tutto. D’un tratto, calò una calma innaturale.
Innanzi a loro c’era uno strano palazzo, dal quale sembravano avere origine tutti i venti che li avevano sferzati fin lì. La costruzione aveva una struttura cubica, sulla quale si innestava una serie di parallelepipedi, piramidi e poliedri che lo rendevano una sorta di guazzabuglio. La cosa più insolita era una grande ruota di mulino, in legno, che troneggiava in un angolo. Un rivolo d’acqua scorreva in una condotta che seguiva il perimetro esterno del muro, poi colava sulla ruota e la metteva in movimento. Invece di formare un fiumiciattolo, però, proseguiva il suo corso sfidando la legge di gravità e scorreva nella direzione opposta, in un’altra condotta che costeggiava il basamento del palazzo, sollevato di qualche spanna da terra. Saliva infine per il muro e di nuovo si incanalava nella prima condotta. Era un ciclo infinito e inspiegabile.
Le mura erano quasi tutte decorate, ma non c’era un dipinto che fosse in stile con l’altro. Da una parte c’erano disegni geometrici, da un’altra un ampio affresco, altrove un mosaico, più in là una vetrata. I colori erano tutti in stridente contrasto fra loro. Non sembrava un palazzo, ma un insieme raffazzonato di pezzi di edifici diversi assemblati da un cieco.
«Ora puoi mettermi giù, sto bene» disse Nihal.
Sennar distolse lo sguardo dal palazzo e obbedì. «Sei sicura che sia tutto a posto?» le chiese.
Nihal gli sorrise. «Tutto d’un tratto, sento la testa sgombra» disse. Prese un respiro profondo e assaporò l’improvviso silenzio nella sua mente. Era stato davvero terribile. Levò gli occhi sulla costruzione. «È il santuario.»
«Che ne pensi?» chiese Sennar.
«Mi sembra che voglia proteggermi e mi invita a entrare.»
Una scalinata conduceva all’ingresso, una porticina sulla facciata principale. Sopra vi era una specie di ballatoio da cui penzolavano alcune piante. Tra esse spiccava un albero maestoso, benché non si capisse come potesse stare in quello spazio angusto.
«Può darsi che tu abbia ragione, ma a me questo posto mette i brividi» disse Sennar. La scostò da parte per passare avanti. «Almeno, se c’è qualche pericolo, ne farò io le spese.»
«Guarda che non c’è bisogno che tu faccia sempre questa manfrina» ribatté Nihal, ma lui era già entrato.
Lei lo seguì e appena mise piede in quel luogo, perse tutta la sicurezza che aveva provato fino a poco prima. L’interno era a dir poco sconcertante, non si riusciva a decidere da che parte guardare quella costruzione. Era tutto un intrico di scale che salivano, scendevano, svoltavano a destra, a sinistra, ovunque. Non si capiva da dove provenissero e dove conducessero, basso e alto non sembravano avere alcun senso. C’erano porte su quello che avrebbe dovuto essere il soffitto e lampade che pendevano dal pavimento. Un labirinto. Eppure, Nihal sentiva che il silenzio nella sua testa e l’improvviso benessere che sperimentava provenivano da quel luogo.
«E ora?» chiese Sennar.
«Non ne ho idea.»
Il mago avanzò e Nihal cercò di guardarsi meglio intorno. In alto c’erano due porte, altre tre pendevano a destra, cinque erano aperte sulla sinistra, una sbucava dal pavimento. Tutto intorno, scale a non finire.
«Forse potresti fare un incantesimo» propose la mezzelfo.
«Per cercare cosa? Qui non si capisce nemmeno qual è il sopra e qual è il sotto.»
«Allora non resta che tentare» disse Nihal, quindi prese la prima scala che vedeva innanzi a sé.
Sennar la seguì. La salita parve non finire mai. Una volta in cima, trovarono solo un muro che sbarrava loro la strada.
«Evidentemente mi sono sbagliata» disse Nihal.
Iniziò a scendere. La scala lungo la quale procedevano, però, non aveva nulla a che fare con quella che avevano percorso per salire. Era la stessa identica scala, eppure era completamente diversa. La discesa infatti fu molto più breve e la stanza in cui arrivarono non quella da cui erano partiti.
«Ma non siamo saliti per questa scala?» chiese Sennar.
«Direi di sì. Io sono arrivata al muro, mi sono girata e sono scesa. Non ce n’erano altre.»
Eppure la stanza era diversa: innanzi a loro, ora, c’era una sola porta. La varcarono e giunsero in un’altra stanza. Anche lì c’era solo una porta, passarono oltre e trovarono una terza porta. La attraversarono, ma ce n’era ancora una, e poi un’altra, e poi un’altra ancora, e ancora. Superarono un’infinità di porte, sempre più piccole, e alla fine giunsero in un’ennesima stanza, stavolta tappezzata solo di scale, senza porte.
Nihal si gettò sulla prima che le capitò e la salì con rabbia fino in cima. Quando fu in alto, un baratro senza fondo si spalancò innanzi ai suoi piedi.
Fu Sennar a prendere in mano la situazione. «Ho letto qualcosa sui labirinti. Mi sembra di ricordare che bisogna tenere una mano appoggiata a una parete e procedere senza mai staccarla. Forse possiamo venirne fuori.»