«Va bene, hai ragione, ti ho dato poco retta in questi giorni» ammise lei, rispondendo all’accusa nascosta in quelle parole. «E so anche che può essere pericoloso, però...»
«Io non ti capisco» disse Sennar, in un tono più comprensivo. «Perché vuoi rischiare tanto?»
«Perché voglio trovare le mie radici.»
Sennar scosse la testa. «Ti capisco ancor meno. Sei stata allevata da un umano, sei sempre vissuta in mezzo a umani, perché non riesci a considerarti una di noi? Non troverai nulla a Seferdi che non hai già: solo dolore e morte.»
Nihal guardò a terra. «Forse hai ragione, ma non posso rinunciare. Non è facile da spiegare... Sento che qui ci sono le mie radici, a questa Terra è legato quel che sono, quel che avrei potuto essere, quel che sarò. Voglio vedere ciò che è rimasto del mio popolo.»
«Perché vuoi farti del male?» chiese Sennar a bassa voce.
«Devo farlo. Non sarò mai umana, e non sarò mai neppure una mezzelfo, se non vedo Seferdi la Bianca innalzarsi candida tra i boschi. Cerca di capirmi.»
«Faremo come vuoi» si arrese Sennar.
Procedettero dunque verso ovest e in due giorni furono fuori dal deserto. Il panorama che li accolse quasi li costrinse a rimpiangerlo: una sterminata pianura costellata di bubboni neri. Erano torri che si innalzavano nella piana, collegate da vie bianche come cicatrici e circondate da una manciata di costruzioni addossate disordinatamente l’una all’altra. Non c’era nemmeno un albero, solo il grigio accecante della pianura. Inoltre, il deserto almeno era un luogo sicuro, nella sua desolazione, mentre in quella regione c’erano fammin ovunque.
«Pensaci bene» disse Sennar a Nihal, al limitare della piana. «Se vuoi, sei ancora in tempo per cambiare idea. Io andrò a prendere provviste in una di queste... città, e tu mi aspetterai nel deserto. Poi proseguiremo a sud.»
Nihal si calò il cappuccio del mantello sul volto. «Prima ci entriamo, prima ne usciremo» dichiarò inoltrandosi nella piana.
L’ultimo giorno di permanenza nel deserto avevano dovuto digiunare. Era rimasta loro solo dell’acqua. Ora erano affamati e non avrebbero potuto evitare a lungo i centri abitati. Nella mattinata non avevano incontrato fammin, ma nel pomeriggio individuarono delle sagome in lontananza e si stupirono nel vedere che erano uomini.
Il primo era un tizio a cavallo, armato, che non li degnò neppure di uno sguardo e proseguì tranquillo per la sua strada. Il secondo uomo era alla guida di un carro, sul quale era ammassata una decina di fammin in catene. A quella vista, Nihal strinse l’elsa della spada e attese che il carro e quelle bestie che odiava scomparissero dalla sua visuale. Quando infine furono lontani, tirò un sospiro di sollievo e si rilassò.
Verso sera, si avvicinarono a uno di quegli agglomerati di costruzioni che sembravano città. Si trattava di cittadelle fortificate. Erano costruzioni basse, case, locande e armerie, circondate da un alto muro. Nel mezzo dell’agglomerato si innalzava un torrione, il centro nevralgico della cittadella. Tutto era in pietra scura, basalto probabilmente, che conferiva a quelle città un aspetto tetro. Una pioggerellina fitta aveva iniziato a bagnare la pianura e riempiva l’aria di un vago sentore di marcio.
«Non abbiamo scelta, dobbiamo entrare» osservò Sennar.
Fecero il giro delle alte mura che circondavano la città. Vi era una sola entrata, una porta controllata da due fammin. Di sgusciare dentro di nascosto non se ne parlava, dovevano passare dall’ingresso.
«Parlo io. Tu copriti e sta’ zitta» le ordinò Sennar.
Si avvicinarono guardinghi alla porta. Non appena furono a pochi passi, la sentinella spianò la lancia.
«Chi è là?» disse con voce gutturale.
«Mercanti d’armi» rispose Sennar.
«Da dove venite?»
A quanto pareva la scusa era plausibile.
«Dalla Terra del Fuoco.»
«Non sembrate gnomi.»
Nihal pose la mano sulla spada e iniziò a sudare freddo.
«Infatti non lo siamo; siamo uomini dalla Terra del Fuoco. Cerchiamo riparo per la notte.»
Il fammin lo guardò con sospetto. «Cosa porta sotto il mantello l’uomo che è con te?»
Prima che Nihal potesse fare qualcosa, Sennar le scostò il mantello e mostrò la spada. «Una mia opera. Bella, no? Il miglior cristallo nero della Terra delle Rocce, un saggio della mia bravura per eventuali compratori.»
Il fammin abbassò la lancia. «Potete entrare» disse e aprì la pesante porta.
Sennar si affrettò a passare e Nihal lo seguì.
Subito dopo la porta, c’era una bassa muraglia nera, tanto addossata alle mura della città da lasciare appena lo spazio perché vi passasse un uomo, in cui si apriva una serie di vicoli angusti, stretti tra quelle basse pareti.
Sennar avanzò di qualche passo con prudenza, poi spinse Nihal in un vicolo.
«Che ti prende?» sbottò lei.
Odiava quel posto, le mura la soffocavano e la pioggia iniziava a esasperarla. Preferiva la desolazione del deserto a quel luogo inquietante che traboccava di fammin.
«Sta’ zitta» le ordinò Sennar, portandosi un dito alla bocca. Quindi, iniziò a recitare una litania, chiuse gli occhi e quando li riaprì le mise una mano sulla fronte. Nihal sentì una strana sensazione, una specie di calore.
«Che cosa mi hai fatto?» chiese spaventata.
«È un incantesimo che mi insegnò Flogisto nella Terra del Sole; permette di camuffarsi come si vuole. Ora hai l’aspetto di un bel ragazzo» disse Sennar con un sorriso.
Nihal si portò le mani al volto e non si riconobbe. Al posto della sua pelle liscia, sentiva il ruvido di una barba mal fatta; il naso si era allargato, la fronte innalzata. Si portò subito le mani alle orecchie. Tonde. Le fece uno strano effetto.
«Durerà per tutta la sera, non di più. Quando saremo nella locanda non parlare, non ti scoprire il volto e limitati a mangiare. Quest’incantesimo è solo una precauzione; meno ci faremo notare, meglio sarà.»
Sennar si coprì di nuovo con il mantello e ripresero il cammino.
Girovagarono a lungo per i vicoli che tagliavano quelle costruzioni. Era un intrico inespugnabile di viottoli e stradine che si intersecavano nelle maniere più impreviste e con le angolature più strane. Non c’era modo di orientarsi in quel labirinto e presto si resero conto di essersi perduti.
«Non so più dove siamo» ammise Sennar.
Nihal taceva e si sforzava di reprimere il fastidio e il disgusto; camminava a capo chino cercando di non guardarsi intorno. Poi sentì un rumore sordo e si fermò, la mano sulla spada.
«Che cosa c’è?» chiese Sennar.
Nihal si guardò intorno, ma non vide nulla. Le ci volle un po’ per capire che il rumore proveniva dalle costruzioni. Tese l’orecchio e percepì un suono che pareva quello di molti corpi che si agitavano in uno spazio angusto, respiri affannosi e grida gutturali. Una sensazione di dolore le attraversò la mente, si sentì soffocare e sperimentò l’angoscia della prigionia.
Vagarono per circa un’ora e si inzupparono fino all’osso sotto quella pioggia lenta ma inesorabile.
Stavano per arrendersi, quando intravidero qualcuno. Nihal si fermò.
«Chi è là?» disse l’ombra, che si trovava a qualche passo da loro. La voce non sembrava minacciosa, era quasi gioviale.
Sennar prese in mano la situazione. «Mercanti. Siamo in cerca di una locanda.»
L’ombra si avvicinò. «Se cercate una locanda, come diavolo siete finiti da queste parti? Non ci sono locande nella Caserma.»
Ora che era più vicino, poterono distinguere il loro interlocutore: era un uomo, coperto da un ampio mantello rosso. Stringeva in mano una lancia, doveva essere una guardia.
«È la prima volta che veniamo da queste parti e non siamo pratici...» rispose Sennar in tono già meno sicuro.
L’uomo li squadrò per un po’ e si attardò sulla figura di Nihal. Poi scrollò le spalle per togliersi di dosso la pioggia. «Si vede che siete stranieri... Qui ci sono solo le celle dei fammin, se volete trovare una locanda dovete salire alla città; se proseguite verso quella salita, lassù in alto, non potete sbagliare.»