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«Fa’ un po’ come credi...» borbottò Avaler.

Nihal scattò verso la scala e la salì in tutta fretta. Sennar la inseguì e la afferrò per un braccio.

«Stai calma!» le intimò a mezza voce.

Appena furono entrati nella loro stanza, Nihal gettò a terra il mantello. «Quel bastardo...» mormorò. «Io credevo che fossero stati solo i fammin a sterminare i mezzelfi... invece... Maledetti!»

Sguainò la spada e la abbatté su un tavolinetto accanto a uno dei due letti. Il legno si schiantò in mille pezzi.

Partirono prima del sorgere del sole. Quando uscirono dalla città pioveva ancora, una pioggia lenta e incessante, simile a un pianto rassegnato.

Dovettero fermarsi in una locanda solo un’altra volta. La città era identica a quella che avevano già visitato, forse solo un po’ più piccola. Entrarono nella locanda dopo mezzanotte e non trovarono quindi molta animazione. Mangiarono in silenzio e sempre in silenzio si ritirarono, per poi svegliarsi all’alba e ripartire.

La sera del giorno seguente si accorsero che l’aria iniziava ad avere un odore fetido. Conoscevano bene quel puzzo, era lo stesso che avevano sentito nelle paludi della Terra dell’Acqua. Nihal ricordava che un tempo in quel luogo c’era una splendida foresta, la Foresta di Bersith. A quanto sembrava, era stata colpita da un male oscuro, forse provocato dai liquami delle città dei fammin, che avevano avvelenato i fiumi che la irrigavano; adesso al suo posto c’era una palude maleodorante.

«Siamo vicini» mormorò Nihal, mentre le ombre si allungavano e annunciavano la notte.

Il terreno su cui camminavano si faceva via via più molle e Nihal vide sparire all’orizzonte le città che odiava. Davanti a loro ora si stendeva solo la macchia scura del terreno intriso di acque putride.

A Nihal balenarono nella mente alcune immagini confuse, accompagnate dal mormorio degli spiriti: alberi secolari tra i cui rami il sole giocava festoso, lo splendore di una città mirabile e dei suoi marmi, sulla quale si stagliava maestoso e candido il palazzo reale, con la sua immensa torre di cristallo. Ora invece nessun chiarore accendeva il buio della notte. Eppure Seferdi era lì, Nihal ne era sicura.

A un tratto la mezzelfo si fermò.

«Che c’è?» chiese Sennar.

«È dietro quella collina» mormorò Nihal.

«Non sei obbligata a farlo» disse Sennar, dopo essersi avvicinato. «Possiamo passare oltre e procedere per la palude.»

Nihal non rispose e avanzò verso la collina. Non appena ebbe iniziato ad aggirarla, vide stagliarsi il profilo della città.

Al posto delle mura alte e immacolate che conosceva grazie alle visioni degli ultimi giorni, vi erano rovine ingiallite, un muro di mattoni sbrecciato in più punti, ai cui piedi giacevano grossi blocchi frastagliati. Sopra, dove un tempo spiccavano gli edifici più elevati e la mole della città, ora vi era un lugubre vuoto, avvolto nella pallida luce della luna.

Nihal avanzò piano in quel silenzio spettrale e si trovò infine a ridosso delle mura, sotto la porta. Era un’apertura ogivale stretta e altissima, e sull’architrave vi erano le statue di due leoni accucciati, che sembravano fare la guardia alla città. A terra, divelta, c’era una porta in legno con intarsi in metallo; le borchie erano divorate dalla ruggine e il legno era marcito fino all’osso. Nihal si chinò e vide i segni sbiaditi di un bassorilievo, ormai quasi indistinguibile. Nel mezzo, poi, si apriva uno squarcio, probabilmente il segno dell’ariete che aveva sfondato la porta in una notte come quella, quarant’anni prima. L’altro battente pendeva divelto a metà dai cardini. Era incredibile che avesse resistito in quella posizione per tutti quegli anni.

Nihal si alzò e, intimorita e in soggezione, oltrepassò i leoni, che sembravano indagarla con i loro sguardi privi d’occhi. Una volta entrata, le parve di aver messo piede in un altro mondo.

15

Laio e Vrašta

Laio non ebbe subito la certezza di essersi svegliato. Quando aprì gli occhi vide solo buio. Fu il peso delle catene che gli cingevano i polsi e le caviglie, assieme al dolore alla spalla, a riportarlo alla realtà.

Cercò di voltare la testa per vedere dove fosse, poi ricordò quel che era accaduto e capì di essere prigioniero. Le lacrime gli vennero agli occhi, come qualche giorno prima, nella cella della base. Non solo non era riuscito a raggiungere Nihal, si era anche fatto catturare.

Cercò di muoversi per capire quanto fosse grande la cella, ma le catene glielo impedivano e la spalla gli doleva. Sentiva rumori di catene provenire da altre celle, urla di uomini, voci gutturali, risa. Era un universo di suoni cupi che lo frastornavano e lo spaventavano.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso, ma a un tratto vide aprirsi una finestrella davanti a lui; doveva essere uno sportello nella porta. La luce, seppur fioca, lo accecò. Quando si fu abituato, vide che la cella era piccolissima, bastava appena a contenere il suo corpo minuto.

Dalla porta emerse il volto spaventoso e feroce di un fammin. Laio raggelò quando vide le zanne giallastre, i piccoli occhi porcini, gli arti innaturalmente lunghi e dotati di artigli.

«Cosa volete da me? Cosa mi vuoi fare?» urlò terrorizzato.

Il fammin entrò e Laio vide che portava con sé un piatto, la sua cena probabilmente, o il suo pranzo. Non aveva idea di che ora del giorno fosse.

Il fammin imperterrito entrò e posò il pasto a terra. Volse sul ragazzo uno sguardo strano, incuriosito, che a Laio sembrò non corrispondere affatto al suo volto feroce. Quegli occhi erano velati di tristezza, era uno sguardo quasi umano.

Il fammin andò via in silenzio e chiuse la porta dietro di sé; lasciò però lo sportellino semiaperto, in modo che una luce fioca potesse illuminare la cella.

Il secondo incontro di Laio con un fammin non fu rassicurante come il primo. Due giorni dopo, vide la porta spalancarsi e una di quelle bestie entrare a passo deciso. Questo fammin era più alto di quello che di solito gli portava il pranzo e la lanugine ispida che gli copriva le braccia era di un colore più scuro; i suoi occhi, poi, erano malvagi. Laio non avrebbe mai creduto che i fammin potessero essere tanto diversi l’uno dall’altro.

La bestia gli sciolse le catene, lo trascinò a terra e lo condusse fino a un’altra stanza, dove c’erano un uomo e alcuni fammin. Laio intuì cosa stava per accadere e tremò. Si disse che doveva farsi coraggio, che quello era il momento di provare quanto valesse, ma sentiva già le gambe tremare.

L’uomo dapprima si limitò a rivolgergli qualche domanda, di fronte alle quali Laio tacque ostinato. La voce dell’uomo si fece minacciosa, sempre più alta, ma Laio continuò a tacere. Doveva prendere su di sé tutta la responsabilità della sciocchezza che aveva fatto. Mai e poi mai avrebbe rivelato che anche Nihal e Sennar erano in quella Terra.

Lo misero a dorso nudo e per quel giorno non fecero altro che frustarlo, fino a rigare la sua schiena di sangue. Laio urlò, pianse, si sentì perduto e disperato, ma si morse la lingua e non disse nulla di quel che sapeva. Il dolore era insopportabile, peggiore persino di quello della ferita alla spalla, ma resistette.

Il fammin si interrompeva solo perché l’uomo potesse porre altre domande, poi ricominciava con più foga di prima, fino a quando Laio non fu inghiottito dal buio e credette di essere sul punto di morire.

Si risvegliò nella sua cella. La schiena gli bruciava come se fosse lambita da un tizzone ardente. Lo consolò soltanto il pensiero che almeno aveva tenuto la bocca chiusa. Ma per quanto ancora ci sarebbe riuscito?

Per due giorni Laio subì quel trattamento, e per due giorni non parlò. Urlò e si morse le labbra fino a farle sanguinare pur di non rivelare ciò che sapeva. Quando lo riportavano in cella era sempre svenuto, ma avevano la cura di medicargli le ferite. Non potevano permettere che morisse prima di aver rivelato il motivo della sua presenza oltre i confini.