Выбрать главу

Presto Laio non riuscì a pensare più a nulla. Non aveva consapevolezza nemmeno del proprio corpo e giaceva semincosciente in un canto della cella.

La terza sera accadde qualcosa. Quando il fammin che gli portava la cena aprì la cella, Laio da principio neppure se ne accorse. Attraverso le palpebre socchiuse percepì una pallida luce, poi sentì una presenza al suo fianco. Aprì gli occhi e vide che il fammin lo guardava.

«Perché stai zitto?» chiese quell’essere con voce gutturale.

Laio non rispose.

«Ti stanno uccidendo, perché non dici quello che sai?» continuò il fammin. «Non ha senso morire così. Solo per un ordine si muore, perché non si può fare altro.» L’essere tacque pensieroso. «Qualcuno ti ha ordinato di stare zitto?»

Laio stavolta aprì gli occhi e sollevò il volto su quella creatura. Non capiva che cosa volesse.

«Qualcuno te l’ha ordinato?» ripeté il fammin.

Laio scosse la testa, poi la lasciò cadere sul petto.

«Allora perché non parli?»

«Non ho niente... niente da dire...»

«O sei una spia o cerchi qualcosa: questo dice il capo» insistette il fammin.

«Sbaglia» rispose Laio stremato.

«Perché stai zitto?» ripeté allora la bestia.

«Ci sono cose che si fanno... perché si vuole farle. Io morirò... perché ho deciso che è giusto così...»

«Non capisco» disse il fammin.

Lo guardò stupito, poi prese un’ampolla sudicia, voltò il suo prigioniero e iniziò a spalmargli il contenuto sulla schiena. Un subitaneo senso di freschezza invase Laio e lo fece sentire un po’ meglio.

«E tu perché fai questo?» chiese il ragazzo al fammin.

«Tu non puoi morire prima di aver detto la verità: così ha detto il capo. Allora ti medico» rispose l’essere.

«Ci sono cose che si fanno solo perché si sente che sono giuste.»

«Cosa vuol dire "giusto"?»

«Non lo so... qualcosa che porta il bene.»

L’essere lo guardò interrogativo. Laio ancora una volta si chiese come fosse possibile che un fammin avesse quegli occhi.

«Come ti chiami?» chiese Laio.

«Vrašta.»

Quella parola gli rammentò qualcosa. «Grazie» mormorò.

Dal quarto giorno iniziarono a usare con lui dei ferri arroventati. L’uomo continuava a porre domande, poi ordinava al fammin di bruciare Laio. Il ragazzo urlava, implorava perfino perdono, ma non parlava.

«Non potrai continuare così per sempre, te ne rendi conto?» disse a un tratto l’uomo, avvicinando il suo volto a quello del ragazzo. «Io non mi stancherò mai di torturarti e non ti permetterò di morire prima di aver detto quello che voglio sentirti dire. Potremmo andare avanti per anni.»

Laio tacque, quelle parole non lo spaventavano più.

L’uomo sorrise. «Vi conosco bene, voi delle Terre libere. Se fai così, può essere solo per proteggere qualcuno. Be’, la tua protezione non servirà a nulla. Se qualcuno è entrato in questa Terra, io lo troverò. Forse l’ho già trovato. Stai soffrendo invano, ragazzino, non sei un eroe, sei solo un pezzo di carne sanguinolenta tra le mie mani.»

Laio non provava più nulla, non paura, non odio per il suo aguzzino, nulla. La vita era solo dolore, mangiare e bere. Nient’altro. Non aveva la forza per pensare e non aveva neppure più voglia di sopravvivere. L’unica cosa che gli importava era tacere.

Ogni sera Vrašta andava da lui e lo curava. Laio iniziò ad amare la sensazione di freschezza delle medicazioni sulle ferite e ad affezionarsi a quell’essere mostruoso. Attraverso le mani irsute che percorrevano la sua schiena sentiva scorrere la pietà e cominciò a credere che il fammin non lo curasse più soltanto perché gli veniva ordinato.

Quel mostro poi continuava a rivolgergli domande.

«Tutti gli uomini fanno quello che vogliono?»

«Chi è abbastanza forte sì» rispose Laio e pensò a Nihal.

«Tutti gli uomini sono come te?»

«Per fortuna no.»

«Perché tremi?»

«Ho paura.»

«Cos’è la paura?»

«È quella che ti assale in battaglia, mentre combatti.»

«Quando combatto, io non penso a nulla. Devo solo uccidere.»

«Non hai paura della morte?»

«Perché dovrei? Non c’è differenza tra vivere e morire» rispose Vrašta.

«Ti piace uccidere?» chiese Laio.

«Non lo so. Non c’è qualcosa che mi piace e qualcosa che non mi piace. Ci sono solo gli ordini.» Si soffermò un attimo, pensieroso. «Alcuni di noi, gli Errati, non amano uccidere, non lo vogliono fare. Rispondono agli ordini come tutti gli altri, ma non sono altrettanto feroci. Se li scoprono vengono uccisi. Loro piangono quando muoiono, ma dicono che è meglio morire che vivere.»

«Tutti amano qualcosa più di qualcos’altro. Non ti piace spalmarmi la pomata? A me sembra di sì.»

«Non lo so. Forse.»

«Lo sto facendo per qualcuno» disse una sera Laio al fammin, nel delirio della febbre. «L’uomo che mi tortura ha ragione, questo si fa solo per proteggere qualcuno.»

«Per chi lo fai?» chiese Vrašta.

«Per un’amica, la persona a cui tengo di più al mondo.»

«Cos’è un’amica?»

«Qualcuno di cui non puoi fare a meno, qualcuno a cui vuoi bene e con cui stai bene» disse Laio, fra i gemiti del delirio.

«Tu sei mio amico» concluse Vrašta.

Per tutta la notte, il fammin gli stette accanto, sebbene non glielo avessero ordinato. Il ragazzo ripeté più volte il nome di Nihal e quello di Sennar, e la sua voce arrivò anche a chi mai avrebbe dovuto sentirla.

Vrašta fu chiamato dal suo capo il mattino dopo. «Voglio che tu faccia fuggire il ragazzo.»

Vrašta non si chiese il senso di quella richiesta: era un ordine, un fammin non può trasgredire a un ordine.

«Gli dirai che vuoi accompagnarlo dai suoi amici; ti farai guidare fin da loro e quando li avrai trovati li ucciderai.»

Il fammin restò in silenzio, turbato dal suo primo dubbio. Sentiva di non volere uccidere Laio, era suo amico, per gli amici si fanno grandi cose e di sicuro non si uccide.

«Cosa diavolo ti prende?» chiese l’uomo, dopo averlo scrutato con attenzione. «Non ti metterai anche tu a dire che non vuoi più uccidere? Non sarai diventato anche tu un Errato?»

«Farò come dici» rispose Vrašta. Era un ordine, non si discuteva.

L’uomo si rilassò sulla sedia. «Fagli credere di volerlo aiutare. È un allocco, ci cascherà. Non ucciderlo prima che ti abbia portato dai suoi amici. Allora li potrai massacrare come vorrai.»

Vrašta sentì qualcosa di spiacevole in fondo allo stomaco, ma rispose ancora che avrebbe obbedito.

Quella sensazione sgradevole era ancora lì, quando poco dopo il fammin entrò nella cella di Laio. La aprì e vide il ragazzo appeso al muro per le braccia, il capo abbandonato sul petto. Lo avevano torturato ancora. Era notte fonda, il comandante gli aveva detto di andare da lui dopo il tramonto e di portarlo fuori con circospezione, perché credesse davvero che stessero facendo tutto in segreto.

Vrašta si avvicinò a Laio e lo scosse. Laio aprì gli occhi e il suo volto si illuminò al vedere il fammin.

«Sei venuto a curarmi?»

Il peso dallo stomaco era risalito e occludeva la gola di Vrašta. Il fammin si chiese cosa fosse quella strana sensazione che non aveva mai provato, ma non esitò; parlò a Laio come il comandante gli aveva ordinato di fare.

«Ti faccio scappare.» Mentre lo diceva, sciolse le catene che vincolavano Laio alla parete. Il ragazzo lo guardava intontito.

«Ti hanno dato questo ordine?» chiese.

Vrašta restò interdetto. «No, lo faccio perché lo voglio» disse alla fine. In un certo senso era vero. Voleva che Laio stesse bene, voleva che smettessero di torturarlo e fuori di lì avrebbe cessato di soffrire.

«Ti uccideranno se fai una cosa del genere» disse Laio. Scostò il braccio libero. «Lascia stare.»