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Il fammin era sorpreso. Questa il comandante non l’aveva prevista. «Ma io vengo con te e ti porto dalla tua amica. Non mi faranno nulla.»

Laio a quel punto accettò. Vrašta lo liberò dalle catene, lo avvolse in un sacco, se lo caricò sulle spalle e iniziò a cercare la via per uscire dalla prigione. Fece come gli aveva detto il comandante, si mosse furtivo, finse di essere guardingo, ma le sue premure furono inutili, perché il ragazzo si era riassopito fiducioso sulle sue spalle.

Il mattino dopo, Laio si svegliò appoggiato a un albero e socchiuse gli occhi alla luce acida che rischiarava il luogo in cui si trovava. Si sentiva tutto indolenzito e la schiena gli bruciava. Sollevò le braccia e si accorse che per gran parte erano fasciate; evidentemente Vrašta gliele aveva medicate. Si voltò e vide che il fammin era disteso di fianco a lui e lo guardava. Gli rivolse un sorriso riconoscente.

«Se vuoi, posso condurti dai tuoi amici» disse Vrašta.

«Sono partiti due giorni prima di me e non ho idea di dove siano. Non vedo come potremmo raggiungerli» rispose Laio.

«Io ho un buon fiuto, se hai qualcosa di loro, qualcosa che abbiano maneggiato più di una volta...»

Laio era intontito e faticava a raccogliere le idee, così gli ci volle un po’ per ricordarsi della borsa con i soldi. Nihal l’aveva toccata spesso durante il viaggio. Si mosse per prenderla, ma sentì un dolore acuto attraversargli il corpo.

Vrašta si avvicinò premuroso. «Ti fa male?»

«Ho con me una borsa che usava la mia amica, ma non riesco a prenderla. Dovrebbe essere sotto la mia casacca.»

Vrašta annuì per nulla stupito.

Laio allora si ricordò della lettera di Nihal e si diede dello stupido. Se Vrašta sapeva della borsa, doveva sapere anche della pergamena. Era ovvio che l’uomo che lo torturava gliel’avesse trovata addosso. Probabilmente proprio grazie alla lettera aveva capito che potevano esserci altri nemici in quella Terra.

Vrašta rovistò con delicatezza sul petto del ragazzo e prese la borsa. Era vuota e macchiata di sangue. Se la portò al naso, dopodiché annusò l’aria.

«Non sono passati di qui, bisognerà cercarli a lungo» disse.

Quella mattina restarono nella piana, perché Laio era troppo stanco per proseguire. Vrašta lo curò ancora, cercò per lui dell’acqua, gli portò del cibo, sempre sorridente e premuroso.

Per tutto il tempo della loro ricerca, Vrašta tenne Laio sulle spalle. Il fammin aveva gambe veloci e un olfatto molto fino, ed entrambi gli furono utili per seguire le tracce di Nihal e Sennar. Attraversò di corsa l’immensa piana desolata e si fermò solo per curare Laio, per farlo mangiare e bere.

Il ragazzo iniziò a chiacchierare sempre più spesso con il fammin, nel tono affettuoso di un fratello maggiore. Una sera gli raccontò di Nihal, dell’esercito, della sua vita. «Sono contento di non aver parlato» disse alla fine.

«Se avessi parlato non saresti ridotto così» rispose Vrašta.

«Però avrei tradito i miei amici e non c’è nulla di peggio che tradire.»

«Cosa vuol dire "tradire"?»

«Vuol dire mentire, dire di fare una cosa e farne un’altra. I miei amici sanno che io li proteggerei a ogni costo e che non farei mai loro del male. Bisogna sempre essere sinceri con i propri amici.»

Vrašta sentì una fitta al cuore, iniziava a capire: se lui era davvero amico di Laio, non avrebbe dovuto fare quel che stava facendo. In quei giorni, il fammin era travolto da sensazioni che non conosceva e non riusciva a identificare.

Prima di conoscere Laio, Vrašta non sapeva nemmeno cosa significassero parole come "amicizia" o "stare bene". La sua vita era solo combattere. Aveva avuto a che fare con migliaia di prigionieri e qualcuno lo aveva anche torturato. Non ne ricavava né piacere né dolore; erano ordini e i fammin non possono trasgredire gli ordini.

Adesso, invece, iniziava a comprendere che al di fuori dei doveri cui non poteva sottrarsi c’era un mondo, una vita che lo attendeva, fatta di mille sensazioni che solo in quel momento iniziava a sfiorare e che lo incuriosivano, anche quando erano spiacevoli e dolorose. Si ricordò ciò che gli aveva detto un Errato, prima che lo uccidesse: «Non desideri mai vivere e basta? Fare quello che vuoi?». Vrašta non aveva capito, perché non sapeva cosa fosse la vita. Ora invece lo intuiva, e sapeva anche che non voleva tradire Laio. Ecco cos’era quel peso allo stomaco, quel nodo alla gola: era non voler fare una cosa.

Un pomeriggio, infine, Vrašta trovò la strada che gli amici di Laio avevano percorso e capì che erano diretti a Seferdi.

La sera, Laio era assopito al suo fianco e respirava tranquillo. Vrašta gli diede un paio di scossoni; il ragazzo aprì gli occhi e li stropicciò. «Ci sono nemici?» chiese, sforzandosi di mettersi all’erta.

«Io ti ho tradito.» Appena lo ebbe detto, Vrašta si sentì meglio.

Laio non capì. «Cosa?» chiese assonnato.

«Un uomo mi ha ordinato di liberarti, mi ha detto di trovare i tuoi amici e di ucciderti con loro.»

A quel punto Laio era del tutto sveglio, si alzò a sedere. «È solo per questo che mi hai liberato?»

«Mi era stato ordinato» disse Vrašta.

«Tu vuoi uccidermi?»

«No» disse Vrašta d’impulso.

Laio fissò il fammin. «Io sono qui, se vuoi uccidermi fallo ora, avanti.»

Vrašta abbassò lo sguardo. «Io ti ho tradito...» ripeté.

«Tu non mi hai liberato perché te lo hanno ordinato, e non mi hai portato fin qui per tradire me e i miei amici. L’hai fatto perché lo volevi.»

Vrašta lo guardò. «Un fammin non può trasgredire un ordine. Gli Errati che ho conosciuto non volevano uccidere, eppure dovevano farlo, perché sono stati creati così dal Tiranno.»

«Hai scelto tu di dirmi la verità, e hai scelto tu di curarmi, non te lo ha ordinato nessuno. Anche tu puoi fare quello che vuoi, anche tu puoi scegliere.»

«Io non voglio essere costretto a ucciderti... Io non ti voglio tradire... Tu sei un mio amico» disse triste Vrašta.

Laio allungò una mano verso di lui e gli accarezzò una guancia. Quel contatto fece un effetto strano a Vrašta; si sentì d’un tratto consolato, rinfrancato.

«Io mi fido di te e so che non mi ucciderai. Ora che mi hai detto tutto, non ho più nulla da temere. Guidami da Nihal e Sennar.»

16

Orrore indicibile

Davanti a Nihal si apriva una lunga strada lastricata da pietroni squadrati. Era ampia quanto bastava perché ci passassero comodamente due carri e si inoltrava nella città. Le pietre erano smosse e nelle fessure crescevano piante ritorte e piene di spine. Probabilmente era la via principale e un tempo doveva essere fiancheggiata dalle fronde di alberi imponenti. Di alcuni restava solo il ceppo carbonizzato; altri erano scheletri che si stagliavano contorti contro il cielo plumbeo. Su quei rami morti erano appollaiati numerosi corvi e il loro gracchiare era l’unico suono che riempisse la solitudine della notte.

La via era ingombra di calcinacci, vetri e qualche arma, forse caduta di mano a chi aveva cercato di salvare la città. Tutto intorno, i resti di case bruciate o distrutte. Nihal prese una strada secondaria. Trovò la stessa distruzione e le stesse macerie. C’erano addirittura pezzi di stoffa, salvatisi chissà come in tutti quegli anni.

La mezzelfo entrò in una casa. Alcuni mobili erano intatti, ma per la maggior parte erano a terra, distrutti e marciti. C’era una tavola ancora imbandita, come se attendesse solo i padroni di casa. Nelle altre stanze lo scenario era simile: mobili gettati a terra, fogli di carta sparsi ovunque, lenzuola intrise di sangue.

Uscirono e continuarono a percorrere le vie della città. Videro altre case, altri segni di incendi e macchie di sangue sulla strada e sui muri.

«Non è normale che il sangue mantenga un colore così vivo dopo quasi quarant’anni» commentò Sennar. «Qualcuno ha preservato con un incantesimo questa desolazione.»

Nihal si aggirava tra le macerie intontita. Era incapace di provare alcunché, tutto le sembrava estraneo. Non c’era nulla in quella città che le parlasse, il silenzio della morte copriva ogni rumore e le impediva di capire fino in fondo quel che osservava.