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Sbucarono in un’ampia piazza. Nihal ricordò vagamente che era il luogo dove si teneva il mercato ogni settimana. Di solito era gremito di gente e al centro si alzavano gli spruzzi di una fontana, una candida vasca circolare con un’esile colonna di marmo nero che si alzava al centro. Ora la piazza era ingombra degli scheletri di ferro e contorti di quelle che dovevano essere state bancarelle. Tutto il selciato era annerito dalle tracce dell’incendio. Al centro, incredibilmente candida, si innalzava la fontana di cui Nihal aveva memoria. La vasca era piena di un’acqua torbida e palustre, dalla quale si levava il gracidare delle rane, come una litania funebre.

Continuarono a camminare e giunsero a ridosso del palazzo reale. Era ridotto in macerie e il terreno era costellato di frammenti del cristallo di cui era fatto. La torre crollando aveva sfondato il tetto dell’edificio principale e aveva scoperto così la sala del trono. Le colonne della sala si alzavano verso il cielo intatte, candide nello splendore del cristallo, ma l’unica volta che sorreggevano era la cappa delle nubi. In fondo a tutto, solitario in mezzo alle rovine, spiccava il trono, una poltrona di cristallo, con la seduta di un velluto ormai stinto, ma che si indovinava essere stato rosso scarlatto. Nihal immaginò Nammen seduto su quel trono al colmo della sua potenza, mentre comunicava ai regnanti lì riuniti che non avrebbe preso possesso delle terre vinte in guerra da suo padre, ma che avrebbe rimesso a ognuno il suo potere. Quel trono in mezzo alle rovine era uno spettacolo desolante e ridicolo: il simbolo del potere si ergeva sulle macerie. La memoria di quella civiltà era stata spazzata via e Nihal, che sapeva così poco di quel popolo e aveva sempre avuto solo visioni di morte e brandelli di sogni, ne era rimasta l’unica depositaria.

Si aggirarono per un po’ per le stanze del palazzo, finché giunsero in un’ampia sala, probabilmente usata per i banchetti. Una parete in fondo era miracolosamente intatta e occupata da un enorme bassorilievo. Nihal vi vide raffigurati i suoi simili, intenti nelle attività della vita quotidiana. In un angolo, qualcosa attirò la sua attenzione. Era un simbolo, uno stemma. Lo stemma del suo popolo. Nihal tornò a guardare il bassorilievo e notò che quello stemma era inciso sulle corazze di ogni guerriero dell’esercito. Lo osservò a lungo e se lo impresse bene in mente.

In un’altra sala, si trovarono di fronte ai resti di quello che doveva essere stato un osservatorio, testimonianza dell’interesse dei mezzelfi per il cosmo e i suoi misteri. C’erano brandelli di una carta stellare su una parete e a terra, distrutto, un telescopio. Gli invasori avevano infranto le lenti e colpito in più punti il metallo. Il pavimento della sala era cosparso di fogli di carta, molti dei quali bruciati. Su alcuni si potevano ancora leggere frasi in lingue sconosciute o appunti sul moto delle stelle e dei pianeti, il lavoro di una vita, sparso come cenere ai quattro venti.

Continuarono a vagare per le sale e si imbatterono in una statua. Rappresentava una donna, una mezzelfo, catturata in un movimento che sembrava quello di un ballo. Il suo volto esprimeva una gioia e una serenità profonde, ma il corpo giaceva a terra con le braccia spezzate. Fu allora che i sentimenti repressi fino a quel momento ebbero il sopravvento. Davanti a quella donna, Nihal si accasciò e iniziò a piangere.

«Vieni via, hai avuto quel che volevi, il nostro viaggio ci attende» disse Sennar. Si chinò su di lei e la aiutò ad alzarsi.

«Era giusto che venissi» disse Nihal tra i singhiozzi. «Sì, ho fatto bene, per non dimenticare ciò che è stato e ricordare i morti.»

«Non potrai dimenticarli neppure se vorrai» rispose Sennar. «E nemmeno io potrò, dopo quel che ho visto» aggiunse cupo.

Uscirono dal palazzo e cercarono di allontanarsi da quel luogo funereo. Fu così che finirono in una strada che non avevano ancora percorso. D’un tratto, Nihal si sentì afferrare da Sennar, che la strinse a sé per impedirle di vedere.

«Cosa c’è?»

«Non c’è bisogno che guardi» rispose il mago.

«Lasciami.»

«Non è necessario che tu veda anche questo» disse lui. La voce gli tremava. «Non guardare.»

Nihal si divincolò da Sennar e si voltò.

I lati di quella strada erano fitti di patiboli, una prospettiva infinita di cadaveri che pendevano da cappi, sospesi nel vuoto. Sulle forche erano appollaiati centinaia di corvi, come spiriti di demoni a guardia dei morti. Appesi c’erano uomini, donne, bambini, i volti irriconoscibili, le vesti a brandelli, le orbite vuote e colme d’orrore.

«Qualcuno ha voluto che i segni della strage restassero, qualcuno ha usato una formula proibita per impedire che il tempo cancellasse lo scempio» disse Sennar a bassa voce.

Un urlo d’orrore uscì dalla bocca di Nihal.

Sennar accorse da lei e la costrinse a distogliere lo sguardo. «Non saremmo mai dovuti venire. Avanti, andiamo» disse mentre la sosteneva, tenendole il volto premuto contro il suo petto.

Camminarono fra due ali di cadaveri, poi iniziarono a correre, fino a quando furono finalmente fuori dalla città. A quel punto Sennar lasciò Nihal e si sedette, a riprendere fiato.

Dopo qualche istante di silenzio, il mago si alzò e prese sottobraccio la mezzelfo, che ancora piangeva. «Allontaniamoci da qui» disse.

Nihal si lasciò guidare da Sennar e ripresero il cammino. Era notte fonda. Non sarebbe stato facile trovare un rifugio nella palude. Quando arrivarono in una zona dove il terreno era un po’ più solido, Sennar decise che come ricovero notturno poteva andare. Approntò una specie di giaciglio con i loro mantelli e accese un piccolo fuoco.

«Stanotte pensa solo a riposarti» disse a Nihal. «Starò io di guardia.»

«Ma anche tu devi dormire...» protestò piano lei.

«Non ne ho bisogno e non ne ho neppure voglia» rispose secco Sennar, poi la coprì con il suo mantello. Era primavera; se i conti che aveva fatto erano giusti, doveva essere metà aprile, eppure si gelava.

Sennar si accoccolò accanto al fuoco e rimase solo con i suoi pensieri, fra il gracidare delle rane e il fetore asfissiante che saliva dal terreno putrido. Si sentiva svuotato. Davanti alle vittime che penzolavano nel vuoto, gli era parso che i morti avessero iniziato a gridare e che lo invitassero alla vendetta. Era stato invaso da una rabbia che non aveva mai provato. Per la prima volta, aveva compreso ciò che aveva spinto Nihal a gettarsi nella guerra. Per la prima volta in vita sua, aveva sperimentato il desiderio di uccidere.

Proseguirono il viaggio, mesti e silenziosi. Per due giorni camminarono attraverso la palude, poi cominciò a calare il buio. Era un buio differente da quello della notte. Iniziò una mattina e parve che tutto a un tratto il sole avesse deciso di tramontare. Le nubi si tinsero del giallino spento che caratterizzava i tramonti nella Terra dei Giorni; eppure non era neanche mezzogiorno.

«Ci avvinciamo alla Terra della Notte» disse Sennar.

Continuarono a camminare e nel pomeriggio la palude avvolta nella penombra cedette il passo a una cupa foresta. A un tratto, Nihal sentì un rumore.

Si fermò, tese l’orecchio e portò la mano alla spada. Anche Sennar si immobilizzò e si mise in ascolto. Per un po’ non si sentì nulla, poi di nuovo un fruscio. Stavolta Nihal capì da dove proveniva e si avviò in quella direzione con la spada sguainata. Con un salto si gettò fra i cespugli.

Piombò su una creatura che nella foga non ebbe il tempo di vedere, sentì soltanto delle setole sotto le dita. La gettò a terra, la immobilizzò e le premette la spada sulla gola. A quel punto sentì un altro rumore al suo fianco, come se le creature fossero due.

«Fermati, è un amico!» disse una voce quasi infantile, ma con una nota di sofferenza.

Nihal si riscosse e guardò la creatura che giaceva sotto la lama della sua spada: era un fammin e la fissava. Lei si perdette in quello sguardo e sentì svanire l’ira e la voglia di uccidere. Aveva visto qualcosa in quegli occhi che non sapeva spiegare.