Non appena mise il naso fuori dal portone, gli parve di tornare a respirare, e si sentì ancora meglio una volta che ebbe lasciato Makrat. Volò piano con Vesa, mentre la carovana degli allievi scorreva lenta sotto di lui. A mano a mano che si allontanava dalla capitale, gli sembrava di rifiorire; persino il compito dell’addestramento si prospettava meno noioso.
Si fermavano spesso e Ido ne approfittava per qualche breve lezione di strategia, per rinfrescare le nozioni che i ragazzi avevano appreso in Accademia. Lo gnomo sapeva per esperienza che la strategia era la materia meno seguita dagli studenti, che erano sempre ansiosi di menare le mani.
Raccontò quindi alle sue reclute delle numerose battaglie che aveva combattuto, illustrò loro gli schieramenti degli eserciti e le strategie adottate. Lo trovò quasi divertente, era come far rivivere il passato e provava un curioso piacere a rievocare le sue imprese. I ragazzi poi pendevano dalle sue labbra e lo ascoltavano assorti. Ogni tanto qualcuno si lasciava andare a esclamazioni di stupore, oppure qualcun altro gli rivolgeva una domanda. Ido iniziava ad affezionarsi a quei ragazzi.
Lo gnomo si dilungava anche nella descrizione del nemico, delle sue armi, dei suoi guerrieri. I ragazzi avevano sentito parlare dei fammin e degli uccelli di fuoco, ma erano argomenti su cui all’Accademia si sorvolava, perché sarebbero stati affrontati alla vigilia della prima battaglia, quella che concludeva la fase iniziale dell’addestramento.
Ma i giorni di viaggio non erano occupati solo dalle lezioni alle reclute. Finalmente Ido poteva iniziare il proprio addestramento. Pensava con ansia alla battaglia che di lì a breve l’avrebbe impegnato e rievocava sempre più di frequente l’immagine del Cavaliere vermiglio, che aveva quasi dimenticato nei giorni trascorsi all’Accademia. Spesso se ne andava nel bosco, con Vesa, a esercitarsi per aumentare la propria agilità, benché non ne avesse davvero bisogno. Era ossessionato dall’idea di battere quel Cavaliere e l’epiteto che lui gli aveva lanciato nel bel mezzo della battaglia – "codardo" – gli fischiava di continuo nelle orecchie.
18
L’errato
La felicità di Nihal alla vista di Laio si trasformò presto in preoccupazione. Il ragazzo aveva un colorito terreo, le braccia fasciate e la sua casacca era insanguinata.
«Che cosa ti è successo?» chiese mentre gli si avvicinava.
Laio sorrise. «È una storia lunga.»
Per prima cosa, Nihal volle legare il fammin. Sentiva provenire da lui sentimenti strani, simili a quelli che aveva percepito fuori dalle celle dove erano rinchiusi quegli esseri, ma più intensi. La mezzelfo non riusciva a capire da dove scaturissero, non si capacitava che un fammin potesse essere così sconsolatamente triste e mansueto.
Poi mangiarono e durante il pasto Nihal e Sennar si fecero raccontare tutta la storia da Laio. Lo scudiero descrisse con fierezza la sua fuga dalla cella, l’arrivo al valico, la tortura, senza risparmiare neppure un particolare. Dalla sua espressione, Nihal capì quanto fosse orgoglioso di meritarsi finalmente la loro ammirazione e notò che spesso si rivolgeva a Sennar, come in attesa di un riconoscimento. Infine Laio parlò di Vrašta.
«Sarà meglio che ti curi quelle ferite» disse Sennar alla fine del suo racconto.
Laio lo fissò e distolse lo sguardo solo quando il mago gli concesse un sorriso. Quindi si voltò verso Nihal. «Sei arrabbiata?»
Nihal esitò prima di rispondere. «Non lo so.»
«Non l’ho fatto per capriccio» disse Laio e Nihal notò che la sua voce non era più cristallina come prima, era la voce di un uomo. «Voglio essere padrone del mio destino, per questo l’ho fatto. Credo di essere più utile qui con te che alla base o in qualsiasi altro posto.»
«Però... come ti sei ridotto...» mormorò Nihal.
«Ho pagato per la mia scelta. Nella vita è così» disse. Poi sorrise e si allontanò con Sennar.
Le ferite non erano gravi, fatta eccezione per quella alla spalla, che rischiava di infettarsi, ma erano numerose e Sennar dovette faticare un bel po’ per curarle. Quando il mago ebbe terminato, Laio si assopì tranquillo.
Sennar quindi tornò da Nihal, assorta vicino al fuoco. «Cos’hai intenzione di fare con il fammin?» le chiese.
«Non si può far altro che ucciderlo» rispose in tono freddo Nihal.
«Non credi a quel che ci ha detto Laio?»
«I fammin sono macchine di morte, nient’altro.»
Nihal sentiva il bisogno di uccidere dal momento in cui aveva abbandonato Seferdi, e ora le si presentava l’occasione di soddisfarlo. Aveva visto il corpo di Laio, mentre Sennar lo curava; non c’era un brandello di pelle che non fosse stato lacerato dalla frusta o bruciato dai ferri roventi. Di tutte le abiezioni, la tortura era quella che faticava di più a tollerare.
«Laio è affezionato a quell’essere» disse Sennar. «Se il fammin avesse voluto ucciderci, non avrebbe confessato tutto. So che sei ancora furiosa per quello che abbiamo visto a Seferdi, ma credo che tu debba riflettere...»
Nihal lo zittì con un gesto di stizza. «Sai benissimo anche tu che i fammin sono nemici.»
«Questo però ha salvato la vita di Laio» ribatté Sennar.
«Sì, per venire fin qui a ucciderci.»
«Parlagli» disse Sennar calmo. «Interrogalo e cerca di capire cosa vuole, poi decideremo che fare di lui.»
Nihal non riusciva a dormire al pensiero di avere quell’essere al suo fianco, così volle parlare con lui quella notte stessa. Lo svegliò con un calcio e gli si parò davanti. La sua mano strinse automaticamente l’elsa della spada, ma si trattene dall’ucciderlo. C’erano quegli occhi che la frenavano, la tristezza che sentiva provenire dal fammin le impediva di sguainare la spada e tagliargli la testa. «Dobbiamo parlare» gli disse.
Il fammin si limitò a guardarla con tranquillità.
Nihal si sedette. «Hai un nome?»
«Vrašta.»
La mezzelfo sussultò. Era una parola della formula proibita. Solo udirla la fece rabbrividire.
«È una parola che il Tiranno usa per le sue magie» spiegò infatti l’essere. «Tutti i fammin hanno nomi del genere, in modo che quando li si chiama siano avvinti da un incantesimo e non possano disobbedire.»
«È così che i comandanti vi danno gli ordini?»
«Sì» disse Vrašta. «Se si tratta di un ordine normale, un fammin può anche non obbedire, ma quando siamo chiamati per nome perdiamo quella possibilità.»
«Sei qui per ucciderci, vero?» chiese Nihal.
«Non voglio fare del male a Laio» rispose Vrašta.
«Io vi conosco bene» iniziò Nihal. «Quasi tre anni fa, due tuoi degni compari vennero in casa mia e uccisero mio padre sotto i miei occhi. Si divertirono a farlo. So riconoscere la gioia dell’uccidere e vidi quella gioia nei loro occhi. Voi siete tutti così: amate il sangue.»
«Io non amo nulla. Mi piace solo che Laio stia bene.»
«Ti sei approfittato di Laio perché è ingenuo però me non mi freghi. Io sono un Cavaliere di Drago, ho già avuto a che fare con voi.»
«Allora perché non mi hai ucciso?»
La domanda spiazzò Nihal. Non riusciva a confrontarsi con quell’essere. Sentiva di odiarlo, ma per certi versi lo percepiva simile a sé. Non assomigliava ai fammin contro i quali era solita combattere.
«Io non sono come voi» rispose alla fine. «Io non uccido per il gusto di farlo.»
«Tu sei una mezzelfo.» Quelle parole fecero trasalire Nihal. «Lo so perché molti uomini si vantano di averli sterminati» spiegò Vrašta.
«Foste voi a ucciderli.»
«No, ti sbagli» rispose Vrašta. «Sono passati molti anni, ma alcuni di quelli che assistettero alla strage vivono ancora e adesso sono grandi comandanti. Spesso li ho sentiti raccontare di Seferdi. Numerose città della Terra dei Giorni furono distrutte dai fammin, ma Seferdi la vollero radere al suolo gli uomini.»
«Menti» disse Nihal.
«Portarono una truppa di fammin per gettare scompiglio, ma erano quasi tutti uomini, e tra loro c’erano molti maghi. L’ultimo re dei mezzelfi aveva bandito i maghi dalla Terra dei Giorni e volevano vendicarsi. Entrarono con i guerrieri più forti e iniziarono la strage; poi, uno dei maghi più potenti gettò un incantesimo su Seferdi, perché i cadaveri impiccati non si decomponessero e restassero per sempre appesi dov’erano.»