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Sennar scrollò le spalle. «Forse ci sono ancora delle provviste stivate da qualche parte, magari ci sono degli orti, non ne ho idea... Qualunque sia la ragione, però, non durerà ancora per molto.»

La cantilena riempiva i vicoli della città ed echeggiava da un muro all’altro, sovrastando perfino il rumore della pioggia, e lentamente parve che vi fossero mille voci a cantare, mille anime perdute a vagare per quella città morta. Mentre Nihal e Sennar abbandonavano la città, la pioggia seguitava a cadere incessante e, goccia dopo goccia, corrodeva la pietra.

32

TAREPHEN O DELLA LOTTA

Per due giorni Nihal e Sennar dormirono al coperto, rifugiandosi fra le mura di quelle città. Ce n’erano parecchie nei dintorni, tutte disabitate e in rovina. La vecchia probabilmente era l’unico essere vivente nel raggio di miglia.

«A volte mi pare che questo mondo sia già morto» disse Sennar una sera «e che non possiamo fare nulla per salvarlo. Le nostre sofferenze non potranno essere cancellate, nemmeno se alla fine sconfiggeremo il Tiranno.»

Nihal guardò in alto, fra le crepe del tetto di roccia.

«Chissà se sapremo ricostruire dalle macerie...» aggiunse Sennar.

Nihal abbassò lo sguardo. «Non so, a volte credo che tutto questo non avrà mai fine, che si soffrirà in eterno. Sono quarant’anni che il Tiranno regna incontrastato... forse non c’è modo di batterlo.»

«Non è quello che ti ha detto il guardiano di Flaren» commentò Sennar. «Lui sostiene che ogni cosa fluisce, che il bene si alterna al male in una spirale eterna. Se è così, battere il Tiranno forse servirà a qualcosa.» Le parole si spensero nel buio.

A quel punto del viaggio dovettero scendere dai monti. Nihal sentiva che il luogo dove erano diretti si trovava a ovest e dunque non potevano più godere della protezione delle montagne nere. Scelsero il versante che parve loro più accessibile e iniziarono la discesa. La piana si presentò ai loro occhi immensa e desolata. In fondo, vi era un macchia marrone cupo.

«Quella è la foresta» disse Nihal. «È lì che dobbiamo andare.»

Ricominciarono a viaggiare di notte, con la sensazione di essere incalzati di continuo. All’alba dell’undicesimo giorno di marcia, giunsero in vista della loro meta.

La foresta si stagliava innanzi a loro. Era una lunga linea marrone che segnava tutto l’orizzonte, non se ne vedevano i confini. Nihal e Sennar vi si inoltrarono il più rapidamente possibile. Lì si sarebbero sentiti più protetti.

Dapprima incontrarono solo ceppi di alberi pietrificati. Anche parte della foresta era stata distrutta, per il cristallo nero di cui erano fatti alcuni dei tronchi. Poi la vegetazione si infittì e iniziarono a vedere i primi alberi. Presentavano tutte le fogge e varietà degli alberi di legno, ma erano interamente di pietra: tronco, rami e foglie. Ciononostante, sembravano vivi. Era una foresta immobile, come congelata in un istante della sua esistenza. Non c’era stormire di fronde, non c’erano animali; nemmeno l’acqua.

Nihal capì che quel luogo era sacro: percepiva le forze naturali che si celavano nei tronchi, che la chiamavano. Intitolata agli antichi dèi, la foresta era un posto dove le creature del Mondo Emerso potevano entrare in contatto con la natura, con gli spiriti nella loro incarnazione. Nihal e Sennar la attraversarono con l’attitudine del devoto pellegrino, a testa bassa e in religioso silenzio.

Una sera, Nihal si fermò. «Siamo vicini» disse. «Non manca più di un giorno di viaggio.»

La mezzelfo chiuse gli occhi, quindi si voltò e indicò la strada che dovevano seguire. Iniziarono a camminare più spediti, come se nel bosco pietrificato fosse tracciato solo per loro un invisibile sentiero che conduceva alla meta. Erano stanchi e affamati, emozionati dalla prossimità del traguardo. Per questo non si accorsero di alcuni suoni lontani, dell’eco confusa di passi sulla roccia, del tintinnare appena percettibile di spade lontane.

A un tratto, Nihal si bloccò.

«Siamo arrivati?» chiese Sennar.

Prima che lei potesse rispondere, un rumore metallico rimbombò da un tronco all’altro. Nihal sguainò la spada.

«Non possiamo permetterci di combattere adesso, dobbiamo andare al santuario» esclamò il mago.

Nihal guardò innanzi a sé. «Per di là» disse, e iniziarono a correre veloci fra gli alberi.

Per qualche istante non udirono altro e stavano già per tirare il fiato, quando sentirono dei passi pesanti calcare la roccia sempre più rapidi. Nemici in corsa. Poi iniziarono le urla alle loro spalle. Li avevano scoperti.

«Non devono sapere del santuario» disse Sennar ansimando. «È vicino?»

«Sì, manca poco, lo sento.»

A quel punto, Sennar seppe cosa doveva fare. «Io li tengo occupati, tu corri al santuario e prendi la pietra.»

«Sono troppi» rispose Nihal. «Non ce la puoi fare. Proviamo a seminarli.»

Sennar si fermò. «Non sottovalutarmi. Hai già dimenticato com’è andata nella radura?» Subito dopo averlo detto, le voltò le spalle.

«Sennar...»

«Vai!» urlò lui. Si girò a guardarla e sorrise. «Non ti preoccupare, so badare a me stesso. Ci vediamo dopo.»

La mezzelfo restò immobile per qualche istante. Poi si voltò e fuggì.

Nihal cercava di correre più veloce che poteva e non smetteva di ripetersi che non avrebbe dovuto abbandonare Sennar. Le tornò in mente il giorno in cui lo aveva lasciato da solo con Laio a combattere, ma cercò di scacciare quel pensiero.

Ho bisogno di lui. Non può accadergli nulla di male.

Nessuno la seguiva, dunque Sennar stava facendo il suo lavoro. Si impose di correre ancora più in fretta, mentre iniziava a mancarle il fiato. Sentiva con chiarezza dove doveva andare e vi si diresse a rotta di collo.

A un tratto capì di essere arrivata. Si fermò, cercò di calmarsi e si guardò intorno. Innanzi a lei c’era una collinetta e su uno dei fianchi si intravedeva una cavità nera. Era lì che doveva andare. Quando vi fu davanti non esitò, non aveva tempo per le incertezze; con la spada in pugno, tesa nel buio, entrò.

Si trovò in un luogo stretto e umido, una lunga galleria buia che digradava verso il basso. Proprio mentre pensava che forse era il caso di ricorrere alla magia per fare un po’ di luce, si accorse del luccichio sotto il corpetto. Estrasse il talismano e le pietre emanarono un forte bagliore, che rischiarò la strada per un paio di braccia innanzi a lei. Doveva trovarsi in una specie di miniera; il tetto era puntellato da travi in legno ammuffito e le pareti della galleria mostravano i segni di colpi di piccozza e di vanga. Si mise carponi e iniziò a scendere.

Al primo bivio, fu presa dallo sconforto. Guardò i due tunnel e solo dopo mille indecisioni intuì qual era la strada da prendere. Ricominciò a scendere sempre più veloce.

La miniera era un labirinto, un dedalo di corridoi strettissimi. Presto Nihal perse l’orientamento e le parve di non aver fatto altro che girare intorno allo stesso punto da quando era entrata. Ormai procedeva a caso e le lacrime le rigavano il viso.

D’improvviso, il terreno sotto le sue mani si aprì e lei cadde nel vuoto. Quando si rialzò, scoprì di essere in un ampio salone. Sotto di lei troneggiava un’enorme scritta, tanto grande che riuscì a leggerla a fatica: "Tarephen". Al centro della sala c’erano due imponenti colonne e tra di esse l’altare su cui era posata la pietra. Brillava fulgida.

«Dammi la pietra, sono Sheireen, la Consacrata!» urlò Nihal. Non c’era tempo per i convenevoli.

Nessuno le rispose.

«Ne ho già sei» disse alzando il talismano, che brillava più che mai. «Se me lo permetti, prendo la pietra e vado via!» urlò ancora, ma di nuovo fu il silenzio a risponderle.

Benissimo, lei non aveva tempo per discussioni o giochetti, doveva prendere quella dannata pietra. Andò verso l’altare a passi decisi. Quando vi fu arrivata, non poté neppure porre il piede sul primo gradino che l’intera sala fu scossa da un forte tremito. Nihal si fermò e tutto sembrò tornare normale. Si accinse a salire di nuovo e allungò le mani verso la pietra. Di nuovo sembrò che un terremoto scuotesse la sala e stavolta il contraccolpo fu tanto forte che la mezzelfo cadde a terra.