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Dopo otto giorni di viaggio, in una notte di novilunio arrivò al confine con la Terra del Vento. Il buio era pesto e per farsi luce dovette ricorrere a una piccola magia, con la speranza che nessuno la vedesse. L’aria le portava il profumo della steppa della sua infanzia e Nihal esitò. Stava per tornare nella Terra che custodiva i suoi ricordi più cari e più dolorosi, nella Terra dove era cresciuta, dove aveva conosciuto Sennar, dove Livon era stato ucciso e Salazar era stata rasa al suolo, più di tre anni prima. Tremava al pensiero di come potesse essere stata ridotta; avrebbe preferito non doverla attraversare, ricordarla splendida come le era sempre sembrata.

A occhio e croce doveva trovarsi nella parte meridionale della Foresta. Alla luce livida dell’alba, scoprì quello che ne restava. Gli alberi erano quasi tutti secchi e molti erano stati abbattuti, tanto che si poteva spaziare con la vista per un miglio buono. Quando Nihal ci andava da bambina, intimorita, la vegetazione era così fitta che non si vedeva a un palmo e tutto si stemperava in un verde accecante. A chi avrebbe potuto far paura ora quel bosco?

Nihal si accucciò con il mento contro le ginocchia e sentì piombarle addosso tutto il peso della solitudine, mentre il sole si alzava e la luce a poco a poco colorava quel panorama desolante. Le tornarono in mente le parole che Sennar aveva detto durante il loro viaggio: A volte mi pare che questo mondo sia già morto e che noi non possiamo fare nulla per salvarlo. Chi avrebbe restituito alla foresta il suo splendore? I mezzelfi non sarebbero tornati e con lei la loro stirpe si sarebbe estinta per sempre; le Terre saccheggiate, distrutte, avrebbero impiegato anni per tornare ai fasti di un tempo, se mai fosse stato possibile. Il mondo che conoscevano era in agonia.

Dopo qualche minuto si alzò e interrogò il talismano, ma stavolta non ebbe alcuna visione: l’amuleto le indicò solo una direzione. Si incamminò quindi verso nord e vagò per contrade desolate, tra alberi abbattuti e resti di incendi, su terreni diventati sterili. Riconobbe il luogo dove lei e Sennar erano andati per la prima volta a cogliere i lamponi, quello dove si erano allenati insieme, quello dove un giorno Soana l’aveva mandata a cercare erbe medicamentose, quello dove aveva giocato con Phos. A est, sopra quei resti sparuti, la Rocca sembrava più imponente che mai.

L’amuleto brillava attraverso il corpetto e le indicava la strada. Nihal sentiva il suo potere e percepiva la vicinanza degli spiriti. Era la prima volta che non aveva una visione del luogo dov’era diretta e la preoccupava non avere idea di ciò che la attendeva al santuario.

L’attesa non fu lunga. Dopo tre notti di marcia, Nihal capì che la meta era prossima. Intorno a lei c’erano solo i tronchi semicarbonizzati della Foresta, alla sua destra troneggiava minacciosa la Rocca e, più lontano, poteva scorgere i resti di alcune torri. La mezzelfo temette di riconoscere Salazar. A quanto ricordava, quattro giorni di viaggio erano sufficienti per attraversare la Foresta e Salazar era proprio ai margini della prateria.

Presto infatti incontrò il punto in cui aveva ricevuto la consacrazione a maga. Nihal ricordava una piccola radura circolare, delimitata dagli alberi, con una pietra al centro e una polla di acqua limpida in un canto. Gli alberi ai lati ora erano bruciati, non c’era più erba, solo terra grigia, e la polla era secca.

Nihal si sedette sulla pietra e la luna fece capolino tra le nubi, pallida e stanca, una falce sottile che non rischiarava l’oscurità. La mezzelfo guardò innanzi a sé e ricordò il momento in cui Sennar era venuto a consolarla. Si sentiva come allora: sola, impaurita e sperduta. Stavolta però non c’era nessuno che potesse farle coraggio.

I primi giorni andò tutto bene, nella grotta della Terra delle Rocce. Sennar iniziava a credere di potercela davvero fare. Quando aveva lasciato andare Nihal, era convinto che non l’avrebbe più rivista. Solo e ferito in territorio nemico, pensava di non avere alcuna possibilità di sopravvivere.

Contro ogni aspettativa, invece, era una settimana che se ne stava rintanato in quel buco. Non una volta aveva sentito rumore di passi, solo il silenzio assorto della foresta di pietra. Così decise che era tempo di accelerare la propria guarigione. Voleva raggiungere Nihal il prima possibile.

L’ottavo giorno di permanenza nella grotta tutto era tranquillo, forse fuori era addirittura una bella giornata, perché in quella spelonca filtrava più luce del solito. Sennar scostò la tunica e guardò la ferita. Dovette trattenere il disgusto. La sua coscia era massacrata da un taglio profondo, slabbrato e incrostato di sangue. Qualsiasi movimento cercasse di fare, fitte dolorose gli percorrevano la gamba. Sì, aveva visto giusto, l’osso era rotto.

Un osso rotto e un taglio profondo. Non era un’impresa facile per un mago malato. Non poteva fare molto, se non cercare di abbreviare la convalescenza. Così si mise all’opera e constatò che le sue forze bastavano a evocare un semplice incantesimo di guarigione. Per tutta la mattina non fece altro.

Fu quell’incantesimo a segnare la sua sorte. Sennar si era assopito. Era stanco, la magia gli aveva sottratto più energie del previsto. Era scivolato nel sonno quasi senza accorgersene.

Da principio credette di stare sognando. La terra che vibrava ritmicamente sopra di lui era un’eco lontana e confusa. Quando il rumore si fece più forte, il mago era ancora sospeso fra il sonno e la veglia.

Fu il suono stridulo delle spade sguainate che lo svegliò, e percepì una viva sensazione di pericolo. Si riscosse di soprassalto.

Nemici. E un mago.

In un attimo si accorse di quanto fosse stata vana e stupida la sua speranza. L’incantesimo era servito solo a rivelare la sua posizione. Si alzò in fretta, ignorando il dolore lancinante alla gamba, e tentò un’impossibile fuga verso la parte più profonda della tana.

Fu allora che entrarono. Quattro fammin e due uomini. Uno dei due era un mago.

Sennar ormai era schiacciato contro la parete di roccia.

È finita.

Si lasciò cadere a terra. Il mago nemico non ebbe neppure bisogno di evocare un incantesimo offensivo. Si avvicinò a Sennar a passi lenti e gli posò un piede sulla gamba ferita. Il dolore fu lancinante e l’urlo del ragazzo sovrastò la risata di scherno dell’uomo.

Poi un raggio violetto partì dalla mano del mago e il buio avvolse Sennar.

La strada piegava verso ovest e Nihal si ritrovò in una zona della Foresta dove non si era mai spinta. La mezzelfo ricordò le parole che Soana le aveva detto molto tempo prima.

Il cuore della Foresta non appartiene agli uomini, ma agli spiriti. È un luogo sacro, che i piedi sudici delle razze che popolano questo mondo non debbono violare. Lì riposa la vita nascosta del bosco ed essa è un segreto, anche per i maghi più influenti. Ci sono potenze a questo mondo che superano ogni immaginazione e che nessuno potrà mai dominare.

Quella parte della Foresta era meno devastata delle altre. Gli alberi erano ancora in piedi e timide foglioline gialle coloravano i rami. Nihal sentiva che la fine del suo viaggio era vicina, che il santuario doveva essere nei pressi.

A un tratto, davanti ai suoi occhi si presentò uno spettacolo inatteso: un albero enorme, che a una prima occhiata le parve una quercia. Dal tronco si alzavano rami robusti, che si stagliavano maestosi sul nero della notte. Aveva migliaia di foglie, di un giallo acceso, che stingeva nell’oro e luccicava nell’oscurità. Quell’albero era vivo, in quel mare di morte, sano e possente.

Non era un albero normale: non sembrava trarre vita dalla terra, bensì darle vita. Nel punto in cui le radici si incuneavano nel terreno era cresciuta un’erba fitta e bassa, di un verde vivace. Nihal restò per un istante ammirata a guardare quello spettacolo e sentì che la speranza in fondo non era morta, se un simile splendore era potuto sopravvivere in quel luogo. Le ci volle un po’ per realizzare che doveva trattarsi di un Padre della Foresta, non poteva essere altrimenti. Ricordò quello che l’aveva aiutata nella lotta contro Dola e riconobbe la stessa forza, la stessa potenza spaventosa, la stessa vitalità. Se il Padre della Foresta era vivo, allora la Foresta stessa non era perduta. Finché quel cuore gigantesco avesse continuato a pulsare, vi sarebbe stata ancora speranza per la Terra del Vento.