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«La Foresta è già morta, non l’hai visto?»

Nihal scosse la testa. «Non voglio farlo, mi rifiuto» disse. «Per tutta la vita non ho fatto altro che lasciare dietro di me una scia di cadaveri, per rimanere l’unica sopravvissuta. Mi hanno detto che così doveva essere, perché infine liberassi questa Terra. Ma a che prezzo? Il Padre della Foresta mi ha dato la Lacrima, che tante volte mi ha salvata, e proteggeva questo luogo che amavo. Non voglio ucciderlo.»

Phos le si parò innanzi, all’altezza del viso. «Non hai ancora capito? Niente a questo mondo si acquista senza sofferenza. Perché giunga la salvezza, qualcuno deve sacrificarsi.»

«Perché devono sacrificarsi gli altri?» urlò Nihal. Cadde in ginocchio. «Laio è morto per permettermi di prendere la pietra nella Terra della Notte, Sennar ha rischiato la vita nella Terra del Mare e ora è in pericolo! Io non voglio altri sacrifici! Sono stanca di vedere sangue, morte, spade...»

La pietà illuminò il volto di Phos e il folletto sfiorò con la sua minuscola mano la guancia di Nihal. «Ma anche tu hai sofferto, non sono stati solo gli altri a sacrificarsi» disse. «Per anni non hai avuto pace e quando infine l’hai trovata, ti sei sentita dire che ancora dovevi attendere. Hai impugnato di nuovo la spada e contro il tuo volere ti sei messa in cammino per arrivare fin qui. Tu più di tutti hai sofferto. Il dolore non è fine a se stesso, ricordalo. Adesso alzati e ferisci a morte il Padre della Foresta. Prendi la pietra.»

Nihal sollevò gli occhi e guardò l’albero che pulsava di vita. Allungò lentamente la mano e mentre lo faceva vide Phos chiudere gli occhi e capì che nonostante tutto ciò che le aveva detto, o forse proprio per quello, il guardiano non poteva evitare di soffrire. Insieme al Padre della Foresta scompariva tutto il suo mondo.

Nihal prese la pietra fra le mani e la sentì pulsare, resistere alla forza che la strappava al legno. La mezzelfo dovette tirare con energia, contro la sua stessa volontà, e alla fine riuscì a toglierla dal suo posto. All’improvviso il legno si seccò, le foglie caddero a terra, la luce che aveva illuminato l’albero si spense e l’erba che ne incorniciava le radici appassì. Il buio calò sulla radura e la quercia divenne un alberello avvizzito.

Phos guardò a terra e si sedette su una delle radici. Nihal aveva la pietra nella palma della mano. Sembrava più opaca: era bianca, quasi come la pietra centrale, attraversata da venature grigiastre. Nihal recitò la formula e il talismano fu completo. Lo vide rifulgere di una luce sfavillante e sentì che era immensamente potente, tanto da sfuggire a ogni controllo. Era giunta al termine del viaggio.

«Cosa farai ora?» chiese a Phos.

Il folletto scrollò le spalle e la guardò. «Resterò qui, ad aspettare la fine. La storia delle pietre e dei santuari del Mondo Emerso si concluderà il giorno in cui tu evocherai l’incantesimo, nel bene o nel male. Attenderò quel giorno, che sia di gloria o di dolore. Tutto ciò che mi lega a questo mondo è qui.»

«Puoi venire con me, se vuoi. Siamo entrambi soli e tristi, potremmo condividere il nostro dolore.»

Phos scosse la testa. «Te l’ho detto, voglio restare qui, è questa la mia casa. Io non ho più nulla da fare, tu invece hai ancora molto da compiere. Il tuo sogno, il tuo ideale ti attende. I nostri destini sono diversi.»

Nihal estrasse il pugnale dallo stivale e lo guardò a lungo, tentata di sfoderarne la lama. «Tu sai dov’è?» chiese.

Phos abbassò lo sguardo. «Il futuro è diventato incerto anche per noi guardiani. Non so dove sia, né se sia libero. Adesso di certo c’è solo la tua speranza.»

Nihal ripose il pugnale nello stivale.

«Sii fiduciosa» aggiunse Phos con il sorriso gioioso di una volta, e le disse addio.

35

Il tiranno

Una goccia. Una goccia che cadeva a poca distanza da lui. Un suono ritmico, snervante, che gli penetrava le tempie come un cuneo. Non poteva vederla, perché il buio era totale, ma la sentiva e quel suono lo faceva impazzire. Non che in quel luogo non ci fossero altri rumori più terribili: urla soprattutto, urla disumane, tramestio di passi, di spade. All’inizio lo avevano terrorizzato, ma ora tutte le sue percezioni erano concentrate su quella goccia monotona, che sembrava condurlo alla pazzia.

D’un tratto sentì un rumore diverso, che si avvicinava. Passi. Sorrise. Riconosceva quei passi. Non potevano che essere suoi. Sapeva che prima o poi l’avrebbe rivisto, ma non si aspettava che venisse laggiù. La prima volta che l’aveva incontrato, era rimasto sconvolto. Possibile che fosse quello il Tiranno? In quell’istante aveva capito che non sarebbe uscito dalla Rocca, non dopo che il Tiranno gli aveva mostrato il suo volto, e aveva tremato all’idea del momento in cui Nihal si sarebbe trovata faccia a faccia con lui.

La porta della cella si aprì e nella luce si stagliò la sua inconfondibile figura. Era venuto solo. Nessuno dei suoi, fatta eccezione per alcuni generali fedelissimi, l’aveva mai visto in volto. Avanzò a passi lenti.

«Quale onore! Non avrei mai creduto che venissi a trovarmi. Perdonami se non mi inchino e non ti invito a sederti, ma come vedi la mia dimora non è un granché.» Sennar rise, ma la risata gli si spezzò in gola. Sentì qualcosa colargli dalla bocca, sangue, con ogni probabilità. «Credevo che un sovrano come te non si abbassasse a venire in un postaccio come questo, che preferisse restare nel suo magnifico salone, sul suo trono, a riflettere sul suo sconfinato potere.»

«Dovresti sapere che il potere e il suo apparato non mi interessano.»

Sennar odiava quella voce, la sua freddezza. Sembrava che il suo interlocutore non avesse sentimenti, era imperscrutabile.

Il Tiranno si avvicinò, accese un tenue fuoco magico e lo piazzò innanzi al volto del mago. Accecato, lui chiuse subito gli occhi. La fiamma si estinse e il buio piombò di nuovo nella cella. «Sono stati spietati con te.»

«Già» rispose Sennar. «Mi stai facendo uccidere pezzo a pezzo. Mi domando quanto ancora ti vuoi divertire, prima di ammazzarmi.»

«Non io» disse calmo il Tiranno «il boia che ti tortura.»

Sennar rise ancora, e ancora il dolore gli mozzò il fiato in gola. «Certo» riprese quando tornò a respirare «tu non c’entri nulla, non sei tu a ordinare che mi torturino perché ti dica ciò che vuoi sapere.»

«Io ho ordinato che ti interrogassero, non di torturarti. Non ho detto io al tuo carceriere di bruciarti con i ferri arroventati la carne.» La voce del Tiranno rimbombava nel buio della cella.

«Però il boia mi ha fatto questo perché sa che godi della mia sofferenza. Senza che tu glielo ordini, mi tortura per il tuo piacere.»

Il Tiranno parlò ancora, con quella voce accorata che Sennar odiava. Perché non gli ordinava di portargli rispetto e non lo picchiava? Lo avrebbe preferito a quella calma esasperante.

«Io non provo nessuna gioia nel vederti soffrire, e il boia lo sa. Egli lo fa solo per il suo diletto; se anche gli ordinassi di non torturarti più, non smetterebbe. Credevo che sapessi che la natura degli uomini, degli gnomi, delle ninfe e dei folletti è perversa e crudele.»

«Che cosa vorresti dimostrare? Che sono gli altri i malvagi?»

«No» disse il Tiranno pacato. «Solo quanto l’odio possa essere potente. Tu dovresti saperlo, meglio di chiunque altro.»

Sennar raggelò.

«Ti ammiro, sai?» proseguì il Tiranno. «Sei un uomo con il quale posso confrontarmi, per questo ti ho mostrato il mio volto, perché volevo affrontarti da pari a pari. Sono pochi quelli con cui posso farlo.»

«Perché strisci in basso. Solo i vermi stanno alla tua altezza» rispose Sennar.

Neppure stavolta il Tiranno si infuriò. «Gli uomini sono belve assetate di sangue, non attendono altro che il momento opportuno per colpire alla gola il proprio fratello.»

Sennar rabbrividì e pensò alla radura. Scosse la testa. Non doveva lasciarsi incantare. Avrebbe voluto almeno vedere il volto del suo interlocutore, ma l’oscurità glielo impediva. «Che cosa sei venuto a fare?» gli chiese. Era sempre più a disagio e iniziava ad avere paura.