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Quando seppe della scomparsa di Sennar, lo sguardo di Soana si incupì, ma disse anche che era sicura che stesse bene. «È il mago più potente che conosco, dopo il Tiranno, e sento che è ancora vivo, per te, se non altro.» Sorrise. «Devi credere in lui, credere che sopravvivrà e che potrete infine raggiungere la felicità cui agognate.»

Nihal arrossì a quelle parole. «Come...?» balbettò.

Soana sorrise. «Come ho capito che vi amate?» La fissò per qualche istante. «Perché sono una donna e ti conosco fin da quando eri piccola. Ci sono segreti che non si possono celare agli occhi di una donna e tutto in te parla dell’amore.» Sospirò e Nihal capì che pensava a Fen. «Credi in questa fiammella, Nihal, e alla fine raggiungerai quel che cerchi» disse infine la maga.

La data della battaglia venne fissata per la fine di dicembre. Avevano due settimane per i preparativi. Le Terre libere erano in fermento, mentre migliaia di messaggi venivano mandati ovunque.

Tutti i Cavalieri di Drago furono allertati e per la prima volta da tanti anni si vide sul campo anche Raven, il Supremo Generale.

Giunse alla base una mattina, tra lo stupore di tutti. Quando Nihal lo vide, restò senza parole. Non portava più l’armatura piena di orpelli che indossava di solito e perfino l’impertinente cagnolino che lo seguiva dappertutto era scomparso. Il Supremo Generale indossava una sobria armatura di ferro.

«Non potevo continuare a restare inattivo all’Accademia. Il posto di un guerriero è in battaglia e io sono ancora un soldato» disse. Poi si rivolse a Nihal, nel suo tono brusco di sempre. «Sbagliai, anni fa, quando ti misi i bastoni fra le ruote. Sei riuscita dove molti, e io per primo, hanno fallito: hai dato una nuova speranza a un popolo allo stremo.»

In quelle due settimane Nihal si dedicò anima e corpo all’allenamento. Temeva che i mesi di viaggio avessero infiacchito le sue capacità di guerriero e trascorreva gran parte della giornata nell’arena, assieme a Ido, combattendo a terra e in aria, con la spada e con ogni tipo di arma.

La mezzelfo si rese conto che il suo maestro non le aveva mentito; le doti di combattente di Ido non erano state intaccate dalla perdita dell’occhio. D’altra parte, nemmeno lei aveva perso il suo smalto e le bastarono pochi incontri per ritrovare l’agilità e l’entusiasmo di un tempo. Un paio di volte Nihal si misurò anche con altri Cavalieri, ma ormai solo Ido era in grado di starle alla pari.

Più combatteva con il suo maestro, più Nihal capiva che non poteva fare a meno di considerarlo un padre. Livon l’aveva cresciuta, le aveva insegnato a tirare di spada e le aveva indicato quale sarebbe stata la sua strada per il resto della vita. Però era da Ido che aveva imparato cosa significasse combattere, era stato lui a spiegarle chi è il vero guerriero e a fare di lei una persona completa.

Nihal sapeva che questo non significava tradire la memoria di suo padre, al contrario, ne era il coronamento.

Alla base, Nihal ritrovò anche la sua armatura. Ido l’aveva custodita per lei e non aveva permesso che neppure un granello di polvere la sporcasse. Brillava in una cassapanca, con lo stesso fulgore del giorno in cui lo gnomo gliel’aveva regalata.

Quando la vide, a Nihal si strinse il cuore. Ricordò le parole che le aveva detto Laio, poco prima di morire: Avrei voluto arrivare con te fino alla fine e aiutarti a indossare l’armatura il giorno dell’ultima battaglia. Le tornarono alla mente tutte le volte in cui lo scudiero le aveva stretto le cinghie e i lacci prima di un combattimento.

Nel momento in cui prese in mano l’armatura di cristallo nero, Nihal capì come doveva mettere in pratica la decisione maturata a Seferdi.

Il simbolo della casata di Nammen, lo stemma che aveva visto nel palazzo reale, le era ancora impresso nella mente. Era diviso in due parti: in quella superiore c’era un albero, per metà ricco di foglie e per metà spogliato dall’inverno, mentre nella parte inferiore c’era un astro che per metà aveva l’aspetto della luna e per metà il volto del sole. Lo stemma rappresentava lo scorrere inesorabile del tempo, poiché la Terra dei Giorni venerava sopra ogni cosa Thoolan, il Tempo, e la duplice natura dei mezzelfi, nati dalla fusione della stirpe degli uomini e di quella degli elfi.

Nihal portò il pettorale dell’armatura e il disegno dello stemma a Makrat, dallo stesso armaiolo che aveva aggiustato la spada di Ido. Gli spiegò che voleva l’incisione sopra il fregio del drago e che doveva essere di un bianco tanto lucente da stagliarsi nitida sul cristallo nero.

L’armaiolo le consegnò il pettorale due giorni prima della battaglia decisiva; lo stemma era stato riprodotto in modo mirabile, ma soprattutto era di un bianco abbacinante e Nihal non ebbe dubbi che fosse visibile anche a grande distanza. Era questo che voleva.

Il giorno in cui fosse andata nella Grande Terra per compiere il rito con il talismano, il Tiranno avrebbe visto lo stemma sul suo petto e avrebbe capito che nessuna delle malvagità che aveva compiuto in quarant’anni di dominio era stata dimenticata, che il male causato infine sarebbe stato punito. Nihal voleva che sapesse che i mezzelfi non erano scomparsi, che non era riuscito ad annientarli, e che proprio una di loro, uscita dall’inferno, avrebbe posto fine al suo regno di terrore.

Quando vide lo stemma rilucere sul pettorale, Nihal sentì di essere pronta e capì che la battaglia finale era cominciata.

37

L’urlo dell’ultima battaglia

Giunse infine la vigilia dell’ultima battaglia. Nel giro di una settimana le truppe si erano lentamente spostate verso i confini e quella sera, la sera prima del 21 dicembre, la frontiera delle Terre soggette al Tiranno era un’unica linea ininterrotta di accampamenti. Il mattino, l’intero esercito si sarebbe schierato e allora non un solo braccio del confine sarebbe stato sguarnito, ovunque ci sarebbero stati soldati scalpitanti e pronti alla battaglia.

Era stato deciso che Nihal sarebbe andata con Oarf al di là della linea del fronte e che sarebbe stata scortata da Ido e Soana.

«Non voglio andare nella Grande Terra in incognito, come una ladra. Voglio arrivarci con onore, e che tutti mi notino» aveva detto Nihal durante l’ultima riunione. «Voglio che il Tiranno mi veda arrivare da lontano, che si chieda con ansia chi sia e che cosa voglia, e pensi con terrore a ciò che sta per accadergli.»

I generali avevano protestato e l’avevano pregata di adottare una condotta più prudente.

«Il talismano è la nostra unica possibilità di salvezza; se verrai uccisa prima di recitare l’incantesimo, sarà la fine» aveva detto Nelgar, nella speranza di farla ragionare.

Nihal aveva scosso la testa con decisione. «Quando la mia città venne distrutta, scorsi dal tetto della torre l’esercito nemico avanzare. Non dimenticherò mai il terrore che provai, e con me tutti gli abitanti della città, al vedere la morte venirci incontro assieme all’esercito. Voglio che il Tiranno provi quel che ho provato io.»

«È una follia, significa cercare la morte» aveva replicato Raven.

«Non andrò da sola» aveva spiegato Nihal. «Sarò scortata da Soana e da Ido. Ido mi proteggerà con la sua spada e Soana erigerà intorno a me una barriera magica, almeno fino a quando non avrò portato a termine il rito; a quel punto la barriera sarà sciolta e io potrò combattere e trovarmi finalmente faccia a faccia con il Tiranno.»

L’assemblea aveva capito che la decisione di Nihal era irremovibile e alla fine, seppure a malincuore, l’aveva accettata.

La sera fu salutata da una neve fitta e gelida; scendeva lenta, una cortina di fiocchi sottili, ma inarrestabili. Nihal era nella sua stanza, nella casa di Ido, e non riusciva a dormire. Quando era arrivata alla base le avevano proposto di tornare nella sua vecchia casa, quella che aveva occupato per pochi mesi dopo essere diventata Cavaliere. Nel momento in cui vi aveva messo piede, però, Nihal aveva capito che non avrebbe potuto vivere lì. C’erano troppi ricordi, era tutto identico a come lo aveva lasciato, compreso il letto di Laio, dove le sembrava quasi di poter vedere l’impronta del corpo minuto dello scudiero. Aveva preferito la casupola di Ido, dove poteva contare anche sul conforto del suo maestro.