L’indomani un sole pallido illuminò la piana della Rocca, ingombra di macerie e intrisa di sangue. Del regno che il Tiranno aveva creato non restavano che schegge di cristallo nero e i cadaveri di chi l’aveva seguito. Ma non era solo il sangue dei suoi seguaci a colorare la terra; anche migliaia dei nostri erano morti. Raven fu trovato innanzi ai portoni divelti della Rocca; nonostante la sua boria, era stato un grande soldato e molti piansero la sua morte.
La sorte invece fu clemente con Ido, anche se più della sorte poté Vesa. Fu il drago a salvarlo. Quando lo gnomo cadde a terra privo di sensi, la battaglia imperversava intorno a lui e più d’uno stava per scagliarsi sul suo corpo per vendicare Deinoforo steso lì a fianco. Vesa si gettò sul suo padrone, lo coprì con le sue immense ali e lo protesse dai nemici; li divorò, li incendiò, fece di tutto per tenerli lontani. Fu così che Ido si salvò. Certo non era ridotto bene e gli ci volle molto tempo per ristabilirsi dalle ferite. Dopo un mese e mezzo però impugnava di nuovo la spada, con qualche cicatrice in più, ma pronto a costruire la nuova era cui tutti aspiravamo.
Le truppe del Mondo Sommerso diedero un contributo prezioso e lo stesso Varen si distinse egregiamente sul campo. Vide cadere molti dei suoi, ma combatté fino alla fine, quando la sua leggera armatura fu trafitta da una lancia nemica. Il conte però ebbe fortuna e uscì vivo da quella giornata memorabile, nonostante avesse riportato una grave ferita alla spalla.
Il prezzo più alto in vite fu pagato dai territori soggetti al Tiranno. La gran parte dei ribelli fu massacrata. Dei tremila uomini che Aires era riuscita a raccogliere non ne rimasero che trecento. Lei venne trovata ancora viva sotto un cumulo di cadaveri. Pianse a lungo la morte dei suoi, ma sapeva che quella vittoria non poteva che essere guadagnata con il sangue e il sacrificio, e che quelle vite non erano state spese invano.
Per quel che mi riguarda, mi raccolsero più morto che vivo innanzi alla Rocca. Non furono tanto le ferite del corpo a mettere a repentaglio la mia vita, quanto quelle dello spirito. Ciò che il Tiranno mi aveva fatto mi aveva devastato; la mia mente era sconvolta, la volontà di combattere per la salvezza era fuggita. Coloro che mi curarono mi sottrassero alla morte e non le permisero di portarmi via. Fu così che lentamente tornai alla vita. Quando mi svegliai da quel lunghissimo sonno ero ignaro come un bambino e molti credettero che fossi impazzito. Dovetti imparare di nuovo a vivere, rieducare la mia mente al mondo. Lentamente i ricordi di quel che ero stato tornarono e io rinacqui.
Non riuscirono però a salvare la mia gamba. È ancora al suo posto, ma non posso più usarla e me la trascino dietro inerte. Comunque, ormai ci ho fatto l’abitudine e trovo che il bastone mi dia un’aria da reduce e mi faccia sembrare più saggio. Ora che la barba si è allungata, mi sembra di somigliare davvero ai savi del Consiglio che io e Aster immaginavamo da bambini. Certo, in tutto questo mi ha aiutato ciò che Aster non ha mai avuto e sempre ha desiderato: l’amore.
Quando mi trovarono ai piedi della Rocca, accanto a me c’era Nihal. Al suo collo il talismano era diventato nero e lei non respirava.
Per molti giorni fu creduta morta. La portarono nella sala d’armi dell’Accademia, dove la composero con indosso la sua armatura, il simbolo bianco che spiccava luminoso sul petto, e la spada, che avevano ritrovato accanto alle rovine del trono di Aster. Le tributarono tutti gli onori, perché era stata lei a uccidere il Tiranno e a lei si doveva la salvezza del Mondo Emerso. Oarf si accovacciò al suo fianco. L’aveva attesa per tutta la durata della battaglia nell’arena, aveva lottato valorosamente contro i nemici. Ricordava la promessa di Nihal, che si sarebbero rivisti alla fine di tutto e che sarebbero stati insieme per sempre, ed era venuto per prestare fede a quella promessa che Nihal non aveva saputo mantenere. Sembrava intenzionato a restare lì e vegliare la sua padrona per l’eternità.
Il rogo, l’onore al quale tutti i Cavalieri avevano diritto, era previsto di lì a pochi giorni, ma la data venne rimandata, perché nel frattempo stava accadendo qualcosa di inaspettato e straordinario. Il corpo di Nihal non mostrava alcun segno di corruzione, era roseo e pieno, come se lei fosse ancora viva.
«Vi prego di attendere» disse Soana tra le lacrime a Nelgar, che premeva perché i riti funebri fossero compiuti al più presto. «Non so spiegarvi perché, ma sento che la storia di questo Cavaliere sulla terra non è ancora finita.»
I presenti la guardarono con pietà, ma accolsero la sua richiesta.
Avvenne mentre il tramonto calava su Makrat. La sala era deserta, fatta eccezione per due sentinelle che vegliavano il corpo, e vi fece il suo ingresso una creatura minuta, un esserino esile e svolazzante. Le sentinelle che lo videro avvicinarsi a Nihal credettero che fosse venuto anche lui a rendere omaggio all’eroina.
La piccola creatura si avvicinò al volto di Nihal e si posò sul suo mento, poi la guardò con occhi tristi. «Ebbene, Nihal» disse piano «ti sei arresa? Hai rinunciato al tuo sogno? Sennar giace qualche stanza più in là. Lui lotta ancora e ti attende. Non credi di dover andare da lui?» Sorrise. «Hai sofferto fino in fondo, hai fatto dono di tutto ciò che avevi all’unica persona che potevi salvare. Alla fine, hai trovato lo Scopo Ultimo. Il nuovo mondo di cui ti parlavo è alle porte e tu devi esserci.»
Phos accarezzò una guancia di Nihal, come aveva fatto l’ultima volta che si erano visti.
«Il Padre della Foresta attende il suo cuore. Se io prendessi la pietra che giace sul tuo petto e la portassi da lui, egli tornerebbe alla vita. Ma avrebbe senso la sua vita, ora? A chi gioverebbe la sua esistenza? Tu servi a molti, a Sennar per primo, e hai tanto da fare, mentre il mio caro Padre della Foresta, la mia casa e il mio rifugio, il mio unico amico, ha già fatto quel che doveva. Intorno a lui c’è solo terra bruciata, alberi morti e desolazione; la sua Foresta, quella che teneva in vita, è morta. Te l’ho detto, io e il Padre della Foresta siamo un residuo del vecchio mondo, e il destino di chi ha vissuto tanto ed è molto vecchio è di farsi da parte.» Tacque ancora, come se cercasse le parole giuste. «Il Padre della Foresta ha deciso: vuole essere tuo padre, vuole donare a te la sua linfa vitale, perché tu possa vivere ancora e fare quel che devi. Non sarà facile. Il dono della vita è uno dei più belli e terribili che si possa ricevere, perché è un onore e un onere al tempo stesso. Ma io e il Padre della Foresta sappiamo che tu sei degna di questo dono.» Phos allungò le piccole mani verso Mawas, la pietra della Terra del Vento, e recitò un’incomprensibile litania. La pietra si illuminò di una vivida luce e trasmise la sua energia a tutte le altre nel medaglione. Così, anch’esse risplendettero di nuovo, non del fulgore che avevano il giorno dell’incantesimo, ma di una luce calma e rassicurante. Assieme a quella luce, il colore ritornò sulle guance di Nihal e la vita la animò di nuovo.
«Ecco, il Padre muore e la Figlia nasce. Finché avrai al collo questo talismano, tu vivrai. Non perderlo mai, perché significherebbe la morte.» Phos si appoggiò sulle braccia, come se fosse esausto. «Ora non ti resta che andare incontro al tuo sogno e al premio che ti spetta. Fai buon uso di quel che io e il mio Vecchio Albero ti abbiamo dato.»
Silenzioso com’era arrivato, Phos andò via. Da allora nessuno l’ha più visto.
Nihal si è ripresa del tutto. Non ricorda nulla della sua presunta morte o dell’incontro con Phos, ma le parole che il folletto le disse quel giorno le sono rimaste impresse nella mente e porta sempre con sé l’amuleto. È stata lei ad aiutarmi a tornare in me, a ridarmi la vita e a farmi guarire. A volte, quando ci pensiamo, ci viene da ridere: io sono zoppo e la sua vita è legata a un talismano fino alla fine dei suoi giorni. Forse siamo noi i ruderi del vecchio mondo.