La sua mente però è libera dai fantasmi; si sono dileguati come neve al sole, finalmente ridotti al silenzio. «Mi sento quasi sola, ora che le voci non ci sono più. Però è bello questo silenzio, mi dà una calma che non conoscevo...» mi ha detto una sera. Non c’è più traccia dell’incantesimo che l’ha tormentata per tanto tempo, perché anche Reis è morta, vittima del suo stesso odio. Il giorno della battaglia volle stare nella mischia, per vedere con i suoi occhi la distruzione del suo nemico. Nell’istante in cui Nihal lo trapassò da parte a parte, Reis urlò con gli occhi biancastri che sporgevano fuori dalle orbite: «È morto finalmente! Il mostro è distrutto!».
Dalla rupe dove si trovava, a ridosso della Rocca, volle scendere nella piana. Si gettò verso l’immensa costruzione, come se d’un tratto i suoi anni fossero fuggiti via, ebbra di una gioia inumana. Corse fin sotto la Rocca e fu seppellita dalle sue stesse macerie. La trovarono il giorno seguente, schiacciata da un masso. Nei suoi occhi spalancati c’era ancora tutto l’odio che aveva animato la sua vita. Di tutti i protagonisti di questa storia, Reis è l’unica per la quale non riesco a provare pena, solo un profondo disprezzo.
«In fin dei conti, anche lei è una vittima» mi ha detto invece Nihal. «Tutti siamo vittime dell’odio che ci cova dentro e aspetta un nostro momento di debolezza per soffocarci.» Per qualche tempo, dopo esserci rimessi, vivemmo un periodo di felicità. Il mondo ci sembrava giovane e pronto ad accoglierci, e per un po’ credemmo che con la morte del Tiranno tutto fosse finito, il male sconfitto, la pace tornata. Eravamo sopravvissuti ed eravamo di nuovo insieme, che cos’altro potevamo desiderare? Ma quel periodo non durò a lungo.
Presto ci accorgemmo che se abbattere il Tiranno era stato difficile, ricostruire dalle macerie non sarebbe stata un’impresa meno dura. Aster e i suoi servi non erano i creatori del Male, ma solo le sue ignare creature. Potevamo anche averli sconfitti, ma l’odio e la malvagità restavano fra noi.
La prima volta che lo capii fu quando andammo dai fammin. Da subito si era posto il problema di cosa fare di quelle creature. Erano diventati indifesi e inconsapevoli come bambini e si erano rifugiati nella Terra dei Giorni, lontano dagli occhi colmi di risentimento e dai propositi di vendetta dei vincitori. In Consiglio parlammo a lungo della loro sorte. Ci fu chi propose di sterminarli, chi di renderli schiavi; solo dopo lunghe ed estenuanti discussioni prevalse la linea mia e di Dagon: i fammin sarebbero rimasti nella Terra dei Giorni, liberi di trovare da soli la propria strada.
Così, un giorno, Nihal, Ido e io partimmo e ci recammo presso di loro per informarli della decisione. Quando ci videro arrivare, molti ci guardarono con orrore e timore, memori di quanto era stato fatto dai nostri simili, delle stragi che tempo addietro Nihal aveva perpetrato sulla loro razza.
Nihal salì su una collina. La piana che sovrastava era la stessa che avevamo percorso colmi d’ira e senza speranza durante il nostro viaggio. Non era cambiata, vi regnava la medesima desolazione di quando Aster era al potere, lo stesso senso di morte. Ora però era gremita di esseri tremanti e spauriti, gettati in un mondo di cui non capivano il senso.
«So che molti si rammentano di me, e di sicuro non conservano un buon ricordo» iniziò Nihal, mentre giocherellava nervosamente con l’amuleto che aveva al collo. «So di essere un’assassina e non vi chiedo di dimenticarlo. Il male compiuto non può e non deve essere scordato, permane nei cuori e scava un solco nell’anima che non può essere colmato. Quello che vi chiedo è di non cercare vendetta. La vendetta non dà riposo ai defunti e non pacifica i vivi.»
Tacque un istante e lasciò scorrere lo sguardo sul suo insolito uditorio. «Per questo vi domando perdono, per quel che ho fatto io e per quel che hanno fatto e continuano a fare i miei simili. Al contempo, vi prometto che anche voi sarete perdonati per ciò che avete fatto, a maggior ragione poiché non lo faceste per vostra volontà. Ora è tempo di pace. È tempo che ciascuno abbandoni la guerra e si dedichi a costruire un nuovo mondo, con la speranza che sia migliore del precedente.» Fece un’altra pausa, poi riprese, a voce più alta: «La mia gente ha deciso che questa d’ora innanzi sarà la vostra Terra. Qui sarete sovrani e padroni, liberi di cercare la vostra realizzazione nella pace. D’ora innanzi ci sarà concordia tra il vostro popolo e tutti gli altri, e vi giuro che non permetterò ad alcuno di alzare la mano su di voi. So bene che ora siete smarriti, che non sapete cosa fare; noi vi aiuteremo a trovare la vostra strada». Volse lo sguardo sulla moltitudine di occhi spauriti ai suoi piedi. «Questo è tutto. Siete liberi di andare, liberi per sempre.»
Quel giorno ci sembrò di costruire davvero la pace, ma ora so che in quel momento in realtà ebbe inizio un problema che a tutt’oggi non è stato risolto. Perché la pace tra i fammin e le altre razze è un miraggio lontano, e una guerra silente e strisciante ancora serpeggia fra le stirpi.
A Nihal fu offerta la carica di Supremo Generale dell’Accademia, ma lei la rifiutò.
«Sono troppo giovane e poco valorosa per una posizione simile» disse, così il posto fu proposto a Ido. Anche lui fece un mucchio di storie, ripetendo che non si sentiva degno e che non aveva voglia di vedersela con tutti i grattacapi che la nomina avrebbe portato con sé. Alla fine però Nihal lo convinse ad accettare e ora Ido siede sullo scanno che un tempo fu di Raven, con Vesa ai suoi piedi.
Io e Nihal ci stabilimmo nella Terra del Vento. Fui lei a insistere, perché sentiva che quella era la sua Terra.
Spesso Ido ci viene a trovare e combatte a lungo con Nihal; sono le uniche volte che lei prende in mano la spada. Ha deciso di abbandonare le armi per un po’ e la sua spada ora è appesa al muro della nostra stanza, ma non la ricopre neppure un granello di polvere e credo che lei tornerà presto a utilizzarla.
Andammo anche nella Terra della Notte, sulla tomba di Laio. Ci manca molto, la sua purezza soprattutto. Fra noi, è stato l’unico che ha attraversato questa guerra senza macchiarsi le mani. Nihal ha lasciato lì la sua armatura. Io ho lasciato in quel luogo gran parte delle mie antiche speranze.
Sono ancora consigliere. Godo di maggior credito di prima fra gli altri membri, ma resto sempre un personaggio scomodo, contro corrente. Il mio compito mi sembra più gravoso ora che in tempo di guerra e la pace è molto più fragile di quanto credessi.
La Terra del Vento è un cumulo di macerie. Quando, dopo tanto tempo, rivedemmo i resti di Salazar, fu un momento doloroso per entrambi. Entrammo nelle mura pericolanti e mangiate dal fuoco e Nihal riconobbe la fucina di Livon, dove suo padre era stato ucciso e dove tutto era cominciato.
«A volte mi sento come questa stanza» mi disse «bruciata e devastata. La mia missione è finita, ma quel che è stato non si può cancellare.»
Si avvicinò a ciò che restava dell’angolo in cui Livon forgiava le sue magnifiche armi; alla parete c’erano moncherini di spada mangiati dalla ruggine. Scoppiò a piangere.
«Non è detto che nel nostro futuro non possa esserci la gioia» le dissi. «Certo, dimenticare non è possibile. Non riuscirò mai a scordare il dolore della tortura o la disperazione nella mente del Tiranno. Però forse da tutto questo dolore nascerà qualcosa di buono. E noi due siamo insieme, non è già molto?»
Lei sorrise e mi abbracciò.
Ora siamo in questa Terra distrutta, a cercare di distillare la felicità dal dolore. Ma so bene che non resteremo qui a lungo.
«Un giorno andremo via» mi ha detto Nihal. «Voglio tornare alle origini, al mio sogno di bambina, quando desideravo essere libera e viaggiare. Saliremo in groppa a Oarf e varcheremo le correnti vorticose del Saar. Non saremo più il valoroso consigliere e il grande Cavaliere che salvarono questo mondo dal Tiranno e che non sanno salvarlo da se stesso, bensì Nihal della Torre di Salazar e Sennar il mago, e vedremo Terre che nessuno ha mai visto, mostri terribili, ma anche distese di boschi di magnificente bellezza. Ecco quel che faremo.»