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Non male, rifletté tra se, ma se avessi qualcosa da cucinare… Continuò ad esplorare e trovò un minuscolo bagno ed una stanza da letto simile ad una cella, con un letto fradicio il cui materasso sarebbe stato rifiutato da qualsiasi penitenziario dello Stato.

Non è proprio una dolce dimora, pensò, poi ritornò in cucina e da lì uscì fuori sulla veranda a godersi lo spettacolo del silenzioso cielo stellato. Si rinfilò la giacca di tela blu, decorata piuttosto vistosamente, con un teschio fiammante che portava delle rose nelle orbite vuote, e si appoggiò allo stipite della porta per scolarsi il moscato e guardare la notte in pace.

La cupa quiete delle colline era penetrata in lui, e lo spinse a considerare con occhi diversi il panorama che lo circondava: c’era una solitudine perfetta, di gran lunga superiore a tutta la birra che gli avrebbe potuto regalare una qualsiasi delle stelle del rock californiano che di solito frequentava. Rimase ancora un poco seduto senza pensare a nulla, poi si alzò e tornò dentro lentamente, a dormire.

Si svegliò chiedendosi cosa avesse fatto di male per far arrabbiare a quel modo il piccolo gnomo con la mazza da fabbro che si stava agitando nella sua testa. Si girò — rimpiangendo immediatamente di averlo fatto — e si chiese se stesse per morire mentre fissava, senza vederle, le ombre delle travi stagionate di fitte ragnatele. Poi il ricordo della giornata e della notte precedente gli affiorò alla mente: la festa di Tarot, il fatto che era lunedì e che avrebbe già dovuto trovarsi al lavoro nel reparto lastratura a dipingere tramonti fiammeggianti su vecchi furgoni, la birra bevuta a Barstow… e quella scrofa di macchina!!

Potrebbe essere solamente il tubo della benzina… disse a se stesso richiamando i propri pensieri oltre l’ostacolo del terribile mal di testa che lo affliggeva a causa delle abbondanti libagioni.

Se il problema era quello, poteva porvi rimedio in poche ore. Altrimenti, se si trattava della pompa, lo attendeva una lunga camminata. Molto lunga.

Rudy uscì di casa e scese le scale socchiudendo gli occhi nella pallida luce dell’alba. Maledì subito il proprietario della macchina, chiunque fosse: fra tutta l’accozzaglia di cianfrusaglie sparsa nel bagagliaio e sul sedile posteriore, non c’era nulla che assomigliasse ad un cacciavite. C’era invece una baracca mezzo seppellita tra le erbacce nei boschi dietro il cottage. Ci trascorse dieci sudici minuti frugando tra i rottami ammuffiti ed infestati di ragni in cerca di qualche strumento. Il risultato fu a malapena soddisfacente: un cacciavite Philips arrugginito e con il manico mordicchiato da qualche cane randagio, un paio di cesoie con due pezzi di inutile metallo al posto delle lame, ed una chiave inglese così corrosa da fargli dubitare che potesse ancora essere usata.

Il sole stava appena illuminando la cima delle colline, quando uscì di nuovo asciugandosi le mani sui jeans; tutto intorno i magici colori del giorno si stavano liberando dalle grigie sfumature pastello dell’alba. La stessa casa, prima soltanto una massa confusa d’ombra, cominciò a coprirsi di caldi toni rossastri e nero seppia; i vetri ancora intatti delle finestre riflessero il bagliore d’oro e argento fuso del sole nascente.

Rudy pensò per un attimo che quel bagliore luccicante gli stesse giocando qualche scherzo agli occhi. Poi si accorse che nel mezzo di tutta quella luce stava accadendo qualcosa, ma non riuscì a capire di cosa si trattasse. Fu costretto a chiudere gli occhi per l’accecante luccichio d’argento che scendeva dal cielo, e batté le palpebre nella splendente luminosità che si andava spandendo intorno. Ebbe la momentanea impressione che lo spazio e la realtà circostante fosserp soltanto un dipinto su una tela misteriosa e che l’aria, la terra, il cielo e la baracca, stessero avvampando dentro una luce penetrante, all’interno della quale turbinavano insieme la più cieca oscurità e dei colori sconosciuti.

Poi, attraverso quello spazio vuoto, avanzò una sagoma indistinta, barcollando, coperta da un cappuccio e da una toga marroni, una spada sguainata in una mano ed un lacero fardello di velluto scuro legato strettamente ad un bastone nell’altra. La lama della spada brillò quasi che vi si specchiasse un sole!

Accecato dalla luce intensa, Rudy girò il capo, confuso, disorientato, scioccato. Quando tornò a girarsi, non c’era più nulla. Sul piazzale era rimasto soltanto un vecchio in abito marrone con una spada in mano ed un bambino in lacrime che gli si stringeva all’altro braccio.

Rudy ammiccò.

«Che diavolo ho bevuto ieri notte?», si chiese a voce alta, poi, trasalendo, chiese al vecchio: «E chi diavolo sei tu?»

L’uomo inguainò la spada con un gesto leggero, ed il ragazzo si rese conto che doveva essere molto veloce nel maneggiare quella lama che sembrava fin troppo reale, equilibrata ed affilata.

Il vecchio rispose con voce stridente:

«Mi chiamo Ingold Inglorion. E questo è il Principe Altir Endorion, l’ultimo Principe della Casa dei Dare!»

«Hunnh…»

Il vecchio sollevò il cappuccio, ed il suo viso mostrò un’espressione indecifrabile resa ancora più estranea dal blu marcato delle sue iridi e dalla sua solenne serenità.

Rudy non aveva mai visto un volto simile: gentile, affascinante e, al tempo stesso, imperioso. Era la faccia di un santo, di uno stregone o di un pazzo. Si stropicciò gli occhi indolenziti.

«Come sei arrivato qui?»

«Ho attraversato il Vuoto che separa il tuo universo dal mio,» spiegò Ingold pacatamente.

«Sei pazzo…»

Incuriosito, Rudy non riuscì a trattenersi dal girare intorno a quello strano visitatore, ma lo fece tenendosi a debita distanza.

Quel tizio, dopotutto, era armato, e Rudy era sempre più sicuro che fosse particolarmente bravo nell’usare la sua spada. Sembrava un uomo all’antica, e quell’idea la confermavano anche gli abiti francescani che indossava. Ma gli anni trascorsi sulla strada avevano reso il ragazzo estremamente sospettoso nei riguardi di chiunque fosse armato, non importa quanto sembrasse innocuo. Inoltre, chiunque andasse vestito così in giro, non doveva avere tutte le rotelle a posto…

Il vecchio lo fissò a sua volta divertito, mentre con la mano robusta accarezzava distrattamente il bambino che stava reggendo.

Rudy notò che il mantello scuro del vecchio e la coperta che avvolgeva il bambino erano scuri di fumo. Suppose che avrebbero potuto benissimo essere sbucati fuori dalle ombre dietro l’angolo della casa, mentre lui era accecato dal violento riflesso del sole nascente, dando così l’impressione di essere usciti da un’aura fiammeggiante. Ma quella spiegazione razionale non lo aiutò certo a capire la provenienza di quella strana coppia, né come mai il vecchio avesse con sé il bambino.

Dopo un lungo periodo di silenzio, Rudy chiese:

«Sei reale?»

Il vecchio sorrise, ed un’intricata trama di rughe si allargò nel groviglio della sua barba bianca.

«Tu lo sei?»

«Voglio dire… sei per caso uno Stregone o qualcosa di simile?»

«Non in questo universo.»

Ingold esaminò il giovane davanti a sé, poi sorrise di nuovo.

«È una lunga storia», spiegò, e si girò avviandosi verso la casa come fosse il proprietario del posto, mentre Rudy lo seguiva passo passo.

«Sarebbe possibile per me rimanere qui fino a che il mio contatto in questo universo non mi raggiunga? Non ci vorrà molto tempo.»

«Che diavolo! Certo, contaci pure.» Rudy sospirò. «Sono qui solo per caso: mi si è rotta la macchina — voglio dire… non è proprio la mia macchina — e devo controllare la pompa per vedere se riesco a rimetterla in funzione…»