Però, non appena giunsero nel centro della città, la ragazza scorse pecore e mucche legate o chiuse in recinti sistemati intorno agli edifici, e i loro occhi lucenti brillavano di paura nell’oscurità.
Usciti dai boschi, videro che il sentiero che stavano percorrendo era cosparso di ciottoli, poi, procedendo, il muschioso manto stradale metteva in evidenza — verso il centro — un sottile ed argenteo filo d’acqua. Le mura li cinsero per un momento in un’ombra fredda e ostile, poi emersero in un bagliore di fuoco luminoso come il giorno.
La piazza era deserta. Vi erano stati accesi alcuni enormi falò, e le fiamme si alzavano violente per almeno trenta metri contro il soffitto del cielo. Il bagliore tingeva di rosso le scure acque della grande fontana della città con le sue cavità ripiene di licheni, ed una tetra, scura, statua.
Tra le ombre tremolanti che circondavano la piazza, Gil distinse le mura e le torri di molte ville dall’aspetto lussuoso, le guglie simili a fortezze di quella che lei suppose essere una chiesa, e la massa quadrata e massiccia che doveva essere sicuramente il Gran Bazar o il Palazzo del Governo, tre piani e mezzo di legno intarsiato che spiccavano nel buio come fossero stati dipinti di bianco. Fu proprio verso quell’edificio che si diresse Ingold.
La doppia porta dell’entrata era alta sei piedi ed ampia abbastanza da far entrare una carrozza con tutti i cavalli, mentre in un angolo si scorgeva una porticina secondaria dell’altezza di un uomo. Ingold la spinse, ma il battente non cedette: era chiuso dall’interno. Il suo corpo impediva ai suoi compagni di scorgere cosa stesse facendo ma, dopo qualche strano maneggio, e trascorso appena un istante, la porta si spalancò, ed entrarono tutti e tre nella luce e nel chiasso fragoroso che regnava all’interno.
L’intero pavimento dell’edificio, un’immensa sala circodata da pilastri e solitamente adibita a mercato, era gremita di gente. Il caos delle voci era assordante, ed al tempo stesso si percepiva un tanfo antico di grasso, orina, corpi sporchi, abiti nauseabondi e pesce fritto. Una fitta nebbia blu — del fumo di legna certamente — nascondeva il soffitto, ed intanto irritava gli occhi limitando la visibilità a pochi metri in qualsiasi direzione.
Il mercato probabilmente doveva già essere stato chiuso, ma la gente circolava ancora, chiacchierando e raccogliendo acqua dai barili semi-vuoti posti in un angolo del locale, mentre i bambini continuavano a rincorrersi senza meta tra l’infinita serie di pilastri ed una gran confusione di oggetti. Gli uomini se ne stavano radunati a gruppi e, da quei capannelli, si udivano provenire maledizioni, grida ed il rumore stridente di lame che venivano affilate. Le madri, invece, correvano qua e là cercando di rintracciare i propri figli, chiamandoli per nome in una babele indescrivibile, mentre i più anziani — nonne, nonni e zii — cercavano di mantenere una parvenza d’ordine in quella baraonda, stringendo a sé i miseri fardelli che racchiudevano le loro povere cose, ossia tutto quello che erano riusciti a portarsi dietro.
Alcuni avevano delle ceste dalle quali spuntavano le teste di anatre, polli ed oche; il biascicare rumoroso dei volatili e l’odore acre del loro guano si mescolavano al resto in un pervicace attacco ai sensi dei nuovi arrivati.
Gil scorse una ragazzina di circa dieci anni, seduta su un letto a castello, che cullava tra le braccine un gattone marrone. Più in là una donna, con un vistoso abito di seta gialla ed una elaborata capigliatura che adesso le scendeva sul volto in riccioli scompigliati, cullava una cesta di polli e continuava a biascicare qualche preghiera.
La luce dei fuochi riverberava tutt’intorno coprendo di sfumature dorate l’intera scena, e circondava i corpi in un alone fiammeggiante, trasformando ogni cosa in uno spettacolo degno dell’anticamera dell’Inferno.
Il fumo irritò gli occhi di Gil e li fece lacrimare, mentre la ragazza procedeva con cautela nella scia di Ingold attraverso le file di persone, schivando barattoli, padelle, secchi d’acqua, fagotti di vestiti, biancheria, piedi di uomini, bambini e donne, finché non furono giunti all’imponente scala che portava dal centro della sala fino al piano superiore.
Qualcuno riconobbe Ingold e lo chiamò con un grido di sorpresa. Ben presto quel nome fu ripetuto dappertutto, come una eco continua che risuonava dagli angoli più lontani di quella stanza colma di ombre. Era un suono di sgomento, di meraviglia, di paura.
Mentre Ingold avanzava, la gente si scostò per lasciarlo passare; qualcuno portò via un bambino addormentato, qualcun’altro raccolse un fardello di vestiti od una borsa di denaro, al suo passaggio. Davanti ai tre si aprì, quasi per magia, un sentiero contornato da forme scure e dal luccichio degli occhi che li osservavano. Il sentiero li condusse rapidamente verso un tavolo ai piedi della scalinata e verso il gruppo di persone riunite intorno ad esso.
La sala intanto, terminate le eco di sorpresa, era piombata nel silenzio, se si eccettuava il chiocciare del pollame ed il pianto isolato di qualche bambino svegliato all’improvviso.
Gli sguardi di tutti erano puntati sulla sagoma incappucciata dello Stregone e sulla sua tunica marrone ancora bruciacchiata, ma anche sui suoi compagni, i due stranieri con i loro abiti di cotone azzurro consumato, e sul fagotto di logoro velluto nero che la ragazza stringeva a sé: Gil non si era mai sentita così al centro dell’attenzione in vita sua!
«Ingold!» Un uomo gigantesco, in uniforme nera — Gil la riconobbe immediatamente come quelle che aveva già viste nei suoi sogni — uscì a grandi passi dal gruppo per incontrarli. Afferrò Ingold e lo strinse in un abbraccio da spaccargli le ossa. «Ti avevamo dato per morto!»
«Pensare così di me è poco saggio, Janus,» rispose lo Stregone tentando di riprendere fiato. «Specialmente quando…»
Lo sguardo dell’omaccione però si era già spostato su Rudy, Gil, e sul fagotto stretto tra le braccia della ragazza, che ancora recava, piuttosto sdrucito, un emblema d’oro. La sua espressione mutò allora dal sollievo e dal piacere trasformandosi in una sorta di meraviglia dolorosa e, allo stesso tempo, abbandonò lo Stregone, quasi lo avesse dimenticato.
«Lo hai salvato…», sussurrò. «Lo hai salvato, dopotutto!»
Ingold annuì. Janus spostò lo sguardo dal bambino all’imponente vecchio al suo fianco, quasi si attendesse che Ingold svanisse o mutasse forma dinanzi ai suoi occhi. Il mormorio della folla si gonfiò come un’onda, e s’infranse fin negli angoli più lontani della sala. Intorno al tavolo però rimase un’isola di silenzio.
In quell’istante Ingold parlò, perfettamente calmo.
«Questa è Gil e questo è Rudy. Sono stati così gentili da aiutarmi nel proteggere il Principe. Sono stranieri, provengono da un’altra Terra e non sanno nulla del Regno e delle sue costumanze, ma sono ugualmente leali e coraggiosi.»
Rudy chinò la testa, imbarazzato da quella presentazione. Gil, dal canto suo, aveva da sempre evitato di pensare a qualcosa di positivo nei propri confronti negli ultimi quindici anni, e quindi, colta di sorpresa, arrossì profondamente.
Ingold proseguì come nulla fosse.
«Gil, Rudy: Janus di Weg, Comandante delle Guardie della città di Gae…» Il suo gesto incluse anche i due personaggi ancora seduti intorno al tavolo. «Bektis, Mago di Corte della Casa di Dare; Govannin Narmelion, Vescovo di Gae!»
Visto che Ingold non forniva ulteriori chiarimenti, Gil guardò Bektis, e scorse un uomo allampanato, dai modi goffi, paludato in un mantello di velluto grigio con sopra incisi i segni dello Zodiaco. Il Vescovo invece la sorprese molto: il suo volto senza un’ombra di barba, dalla severa espressione simile a quella di un antico amanuense egizio, il severo vestito rosso che copriva un corpo dritto e snello… era senza dubbio una donna, ma altrettanto indubbia era la sua qualità di Vescovo. Quel severo viso ascetico esprimeva una profonda forza spirituale, e non avrebbe certo ceduto a nessuno l’onere di difendere il suo Dio.