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«D’accordo, se va bene per te! Quando tornerai in città, sarò qui ad aspettarti su queste scale.»

Ingold sorrise.

«Sei diventato saggio Rudy,» disse. «Soltanto voi due avete la possibilità di lasciare questo mondo. E, considerato quello che accadrà su questa terra, siete veramente da invidiare.»

Poi il vecchio Stregone si allontanò senza dire altro, salendo le lunghe scale con abilità, quasi non fosse stato sveglio per due notti, quindi scomparve tra le ombre in alto, là dove la scalinata sembrava toccare il soffitto.

CAPITOLO QUINTO

La prima sensazione che provò Gil, non appena si alzò dal posto oscuro della porta di servizio dove aveva passato la notte, per entrare nella soffice luce del giorno e nel freddo mattutino che gelava le ossa, fu di sollievo. Non riusciva a ricordare, per quanto si sforzasse, di aver provato tanto piacere nel vedere la semplice luce del giorno: durante la notte non aveva fatto altro che sperare di vedere ancora l’alba.

La seconda sensazione fu di sgomento. Appena uscì sul gradino, fu accolta dal rumore e dal fetore della sala, che la colpirono come un muro di mattoni. La gente intorno stava discutendo, litigando, urlando a squarciagola, cercando di mangiare, disputandosi il possesso di animali scarni e impauriti, ed intanto si raggruppava, agitando le mani e le braccia, verso le uscite degli edifici già gremiti fino al tetto, dove altri profughi chiedevano di entrare.

Altra gente stava attingendo acqua alla fontana semiasciutta della città, litigando anche qui sulla quantità di acqua con voci che la paura ed il panico rendevano stridule e piene di rabbia. La luce che saliva mostrò a Gil un mare di visi atterriti, pallidi, tesi; occhi spaventati che si guardavano intorno con movimenti simili a quelli dei topi in trappola.

Tutti stavano cercando, fisicamente e mentalmente, di trovare un appiglio al quale afferrarsi in quel mondo gelido. Il vento freddo delle montagne intanto portava con sé il suo soffio raggelante spazzando via con folate violente il tanfo persistente dell’immondizia buttata qua e là.

Gesù, pensò Gil spaventata, qui c’è pericolo di colera, di peste… quante di queste persone possono disporre di servizi igienici? Quanti sanno in quale pericolo potrebbero gettarli le malattie?

La sua terza sensazione, non appena si trovò in cima alle scale, esposta al morso del freddo, fu quella della fame. Ci pensò un poco: il Comandante delle Guardie sembrava essere alleato di Ingold e, probabilmente, lo Stregone poteva avergli detto di badare ai suoi amici.

Scese le scale. Nel farlo dovette scansare un vecchio avvolto in un sudicio straccio nero, che sembrava aver piantato il campo sul gradino più basso con tutte le intenzioni di rimanerci. Si diresse subito verso un gruppo di uomini e donne, in uniformi nere da Guardie, che si stavano preparando a guidare i carri che avrebbero composto il convoglio per Gae. Li comandava un giovane alto, con lunghe trecce che gli arrivavano fino alla cintola, che in quel momento era impegnato in una accesa discussione con un gruppo di civili. Il capo di questi ultimi stava scuotendo enfaticamente la testa mentre la Guardia gesticolava verso la folla nella piazza.

Non appena Gil gli si avvicinò, l’uomo licenziò con un gesto disgustato coloro che lo attorniavano e si voltò verso di lei fissandola da sotto le sopracciglia biancastre con occhi luminosi e freddi come il ghiaccio polare.

«Sai guidare?», chiese.

«Un cavallo?», rispose Gil, spaventata, mentre pensava ad un’automobile.

«Non sto certo parlando di oche. Se non sai guidare, verrai a piedi o cavalcherai qualche maledetta cosa… non mi interessa!»

«So cavalcare,» rispose prontamente Gil che aveva di colpo compreso cosa le avesse chiesto quell’uomo dai lunghi capelli chiari. «E non ho paura del Buio.»

«Sei pazza allora.» Il Capitano la fissò e le sue sopracciglia si aggrottarono quando si rese conto dei suoi strani abiti. Non disse nulla, però si girò e chiamò una donna dai capelli brizzolati in una logora uniforme scura.

«Seya! Pensa tu a questo carro.» Quindi si rivolse di nuovo verso Gil. «Ci penserà lei a te.» Poi, quasi ricordandosene all’improvviso, mentre Gil si allontanava con Seya, chiese: «Sai combattere?»

Gil si fermò.

«Non ho mai maneggiato una spada.»

«Allora, se saremo attaccati, stai lontana da chi sa maneggiarla, per l’amor di Dio.»

Poi il Capitano si girò seccamente, e diede ordini con voce tagliente ad un altro gruppo di Guardie.

Seya si avvicinò a Giclass="underline" il suo viso esprimeva un divertimento represso che traspariva tra le rughe che lo segnavano, ed intanto tormentava l’elsa di una spada la cui punta urtava di continuo contro i suoi stivali.

«Non farti irritare da lui», disse la Guardia, fissando la figura del Capitano che si allontanava. «Se fossimo stati pochi, avrebbe messo lo stesso Re a guidare un carro, magari dicendogli «Con il vostro permesso». Guarda là!»

Gil seguì il gesto della mano della donna, e scorse Janus ed Ingold in mezzo alla folla ai piedi delle scale, circondati da conducenti che litigavano, Guardie che gesticolavano, e carri traballanti. Il Capitano stava parlando con loro e Janus appariva quasi spaventato dalle sue parole, mentre Ingold sembrava godersela un mondo. Lo Stregone salì sul carro più vicino, si sedette al posto di guida, ed afferrò abilmente le redini neanche avesse fatto il cocchiere per tutta la vita.

Il sole illuminò le vette ad est non appena lasciarono le ultime case di Karst alle loro spalle: la scena si schiarì, ma il sole era ancora troppo debole per far fuggire la nebbia biancastra che si annidava fitta nell’intrico del bosco. Gil si era seduta su una stretta sella, scomoda come nessun’altra, di un grosso roano, e guidava uno dei primi carri del convoglio.

La maggior parte dei veicoli presenti in città erano stati requisiti, e molti di questi non avevano qualcuno che li conducesse, o perlomeno che si sentisse disposto a far ritorno a Gae, la città infestata dalle Creature del Buio. Molti erano guidati da Guardie e, ai loro lati, due sottili file di Guardie li accompagnavano. Gil scorse soprattutto dei giovani, anche se molti erano precocemente incanutiti. Camminavano senza fermarsi, e la ragazza poté scorgere su molti di quei visi i chiari segni della tensione e dell’esaurimento: erano loro i combattenti che avevano partecipato allo scontro per la difesa di Gae.

Quando la luce del giorno si fece più intensa, Gil riuscì a distinguere dei piccoli campi di profughi che avevano cercato un disordinato rifugio dietro il nascondiglio dei folti alberi del bosco. Altri profughi se ne stavano invece sulla strada: erano uomini e donne coperti di abiti sporchi e cenciosi che si trascinavano dietro fagotti informi di coperte e stoviglie spingendo a volte improvvisate carriole o trascinando delle rozze slitte fatte di rami.

Di quando in quando si incontrava anche qualcuno che guidava un mulo o trascinava qualche vacca restìa con una fune.

La maggior parte di quella gente non si fermava, e prestava poca attenzione alla lunga fila di carri ed alla sua scorta improvvisata. Erano troppo affaticati per il cammino percorso e per la paura che li spingeva a non avere altro pensiero che quello di trovare un rifugio più avanti.

Finalmente la salita terminò, ed iniziò la discesa che finiva in una lunga curva. Al di là del sottile schermo di alberi dalle foglie secche, Gil sentì il vento mutare e diventare più fresco. Alzò gli occhi per guardare il sentiero che scendeva da un lato della strada e conduceva sino ai primi contrafforti di Gae che già si scorgevano.

Quella vista le provocò una fitta là cuore. La città lontana, circondata dalle sue fila concentriche di mura, ed avvolta dalla curva del braccio del fiume, dominava ancora la pianura, coperta dai colori bronzei dell’autunno e dalle bianche ferite delle strade che conducevano a Gae.