Era come se Gil avesse sempre vissuto là, camminato in quelle strade tortuose, e conosciuto sin dall’infanzia quell’orizzonte di torrette ed alberi altissimi. Contro il cielo del mattino si stagliavano sei guglie di pietra, archi rampanti privi delle mura che avevano retto, tese come le dita senza carne della mano di uno scheletro allungata verso il cielo chiaro del primo mattino.
«Gli alberi sono spogli adesso…», la voce sottile ed ansante di un uomo accanto a lei la fece trasalire. «Ma d’estate era tutto un giardino…»
Gil abbassò lo sguardo. Accanto al suo ginocchio, e camminando alla stessa andatura del carro, c’era il Capitano dai capelli bianchi i cui occhi splendevano riflettendo la luce del cielo.
Rispose senza quasi pensare.
«Lo so.»
Quegli occhi luminosi si volsero verso di lei.
«Tu sei la compagna di viaggio di Ingold.»
Gil annuì.
«Si, però conosco Gae: ci sono stata.»
Non ci furono altre domande, e Gil prese ad osservare il suo accompagnatore. Era magro e asciutto; tra le ombre spezzettate degli alberi, la ragazza si accorse che era molto più giovane di quanto avesse pensato: sulla ventina forse, e forse anche più giovane di lei. Erano l’ostinazione e la determinazione che l’animavano ad invecchiarlo. Quelle e la rete di sottili rughe che circondavano i suoi occhi pallidi…
Dopo qualche istante l’uomo riprese a parlare.
«Le Guardie mi conoscono come il Falcone di Ghiaccio.»
«Il mio nome è Gil», rispose la ragazza mentre abbassava la testa per evitare i rami sporgenti di un’enorme quercia.
Gae si nascose ancora alla loro vista celandosi dietro i boschi colmi di una pesante nebbia argentea, in un paesaggio nel quale dominavano l’opale ed il rosso ruggine. Il rumore delle ruote dei carri si mescolava allo scricchiolio delle foghe morte sotto i piedi della truppa.
«Nella antica lingua del Wath, Gil significa ghiaccio,» osservò quasi distrattamente il Capitano. «Gil-shalos: un’asta di ghiaccio, un ghiacciolo. Una volta avevo dato quel nome a uno dei miei falchi da caccia.»
Gil lo osservò con curiosità.
«Allora il tuo nome sarebbe Gil… qualcos’altro.»
L’uomo scosse la testa.
«Nella lingua del mio popolo noi chiamiamo il Falcone del Ghiaccio, Nyagchilios, Pellegrino del Cielo. Perché sei venuta con noi?»
«Perché mi è stato ordinato», rispose Gil senza scomporsi.
Il Falcone di Ghiaccio inarcò le sopracciglia, ma non chiese altro.
Gil non avrebbe saputo rispondere altro se l’uomo avesse continuato con le domande. Sapeva soltanto che si era sentita trascinare verso quei guerrieri calmi e consci della loro forza: le era stato ordinato di unirsi a loro, e non avrebbe potuto certo rimanere indifferente a quell’ordine.
La carovana abbandonò i boschi ed iniziò a scendere sino ai piedi delle colline; attraversarono la pianura ricoperta di erba rossiccia quasi stessero attraversando un lago coperto d’oro fuso, mentre il sole splendeva piccolo e lontano in quello stinto cielo mattutino. Passarono ancora accanto ad altri gruppi di profughi, uomini e donne infelici che trasportavano i resti dei loro averi sulle spalle; la cosa più triste era che tra quei gruppetti c’erano anche dei bambini, con il più grande che conduceva i più piccoli cercando di infondere in loro un coraggio che non provava.
I lati della strada erano disseminati di carogne di animali, libri, coperte; in un angolo Gil scorse anche una grande gabbia per uccelli, con la grata fine come pizzo, e sulla cui porticina aperta spiccava un fringuello rosa ornamentale che cinguettava. Quell’immagine, tra il sibilare dei venti e tutto quello che era successo, le sembrò veramente spaventosa.
Il Falcone di Ghiaccio indicò Trad’s Hill, un promontorio tondo che si ergeva nel mezzo della pianura dorata, e che era sormontato da una croce incrostata di lichene, ma gli occhi di Gil corsero ai resti delle mura di Gae.
Vide torri coronate da guglie frantumate da qualche forza misteriosa, archi, bastioni merlati ancora belli con i lunghi pergolati di rami spogli che li avvolgevano e, per finire, i grandi archi a costoloni spezzati che erano tutto ciò che rimaneva del Palazzo.
Gil sapeva dentro di sé che, in qualche parte della città, c’era una piazza dominata da scale che erano fronteggiate da statue di malachite e dove giacevano, tra le macerie, enormi porte di bronzo spezzate. Da qualche altra parte vi era una volta con una scala di porfido, uno strano lastrone di granito inserito nel basalto liscio del pavimento, ed un arco buio in una strada vuota e in rovina.
Il vento freddo sferzò le mani screpolate della ragazza, strette sul cuoio vecchio delle redini; l’andatura lenta del cavallo stretto fra le sue ginocchia e lo stridìo delle ruote del carro, la riportarono alla realtà da quell’incerto mondo di sogni. Con essi giunse anche la voce profonda e sonora, che si propagava lungo la gente in marcia come un soffio di vento, del Comandante delle Guardie.
Gae puzzava di morte. Gil non vi era affatto preparata, e quel sentore la prese alla gola come la mano di uno strangolatore. La sua vita di ogni giorno l’aveva abituata a stazioni di pullman, concerti rock e week-end nel deserto, che in qualche modo l’avevano aiutata a resistere al tanfo di Karst. Ma il fetore che gravava come una nuvola scura sull’intera città in rovina, era il miasma della putrefazione, una dissoluzione mortale che nel mondo di Gil era abitudine sotterrare od incenerire.
Le strade erano vuote sotto la luce del sole, e l’eco degli zoccoli dei cavalli, e dei piedi sul selciato insieme allo scricchiolio delle ruote dei carri, si infrangeva inesorabilmente contro le nude pareti delle abitazioni. Casa dopo casa, si manifestavano i segni dell’incendio, fin nei piani superiori: travi carbonizzate sporgevano come le costole disseccate di carcasse mummificate; porte e finestre barricate erano ancora nascoste da una terrificante fuliggine che le copriva fino alla parete al di sopra di esse. Gil vide che alcune mura erano state demolite, ma in altri luoghi rimanevano solamente dei piccoli pezzi di macerie sparsi sulla strada mischiati ad ossa frantumate e rosicchiate dai topi.
Le ombre ingannevoli sembravano rivelare come si fossero sparse nella città finalmente libera dagli uomini, per potersi rimpinzare del bottino di quella guerra a loro estranea, anche se qualche nemico rimaneva: dall’alto delle mura frantumate facevano capolino scheletrici gatti selvatici che guardavano passare la carovana con occhi gialli di pazzia.
Gil strinse forte le redini della sua cavalcatura cercando di rimanere in sella…
«Tre giorni fa stava quasi per finire,» mormorò a voce bassa un uomo accanto a lei facendola nuovamente sussultare. «E ora è finita.»
Era Ingold, che aveva portato avanti il suo carro e le si era rivolto ammiccando nei rapidi cambiamenti di luce tra una rovina e l’altra.
Qualcosa di osceno si mosse, troppo rapido per essere scorto, dietro il muro di un giardino. Gil tremò sentendosi sporca e confusa.
«Stai parlando della città?»
«In un certo senso.»
Un ramo scricchiolò sotto le ruote, ed il Falcone di Ghiaccio, che stava percorrendo in senso inverso la colonna, si girò di scatto a quel suono.
Gil si accorse che non era la sola a subire l’effetto malsano di quell’atmosfera raccapricciante che riempiva le strade vuote.
Cosa può significare per questi uomini, si chiese, ritornare ora, dopo aver conosciuto questa città ed essere cresciuti con essa. Così come era…
I suoi occhi passarono lentamente sulle file spezzate di un grazioso colonnato situato ai margini della strada, e ne colse il significato nascosto tra segni cabalistici e decorazioni floreali, oltre alla gaiezza e all’equilibrio dei suoi fregi intrecciati. La ragazza ricordò la mobilia della stanza di Tir: pezzi da museo intarsiati d’avorio ed ebano… Tutto ciò che di fastoso e di bello, ogni cosa buona che quella civiltà aveva creato, potevano ora essere trovati nelle strade di Gae.