Fece girare la testa del cavallo per evitare le macerie annerite di un arco nel quale giaceva il cadavere di una donna abbandonato nell’ombra: su un braccio della morta, rosicchiato e con gli evidenti segni della putrefazione, un braccialetto di diamanti luccicava al sole, circondato da un nugolo di mosche ronzanti.
Anche per chi era sopravvissuto non c’era più ritorno. Gil si chiese se la gente radunata a Karst lo avesse compreso… Certamente Ingold ne era conscio. Lo notò dall’espressione dura della sua bocca e dalla ruga di dolore che era comparsa tra le sue sopracciglia.
Anche Janus stava provando lo stesso dolore: il Comandante delle Guardie sembrava pallido e malato ma, oltre a questo, c’era su quel volto di argilla qualcosa che sarebbe stato bene su una maglietta da spiaggia o su una lattina di birra: l’ombra di un profondo rimpianto, calmo e dolente. La sua espressione era quella di un uomo che stava guardando una tragedia, e ne comprendeva l’essenza intima.
Il Falcone di Ghiaccio invece si comportava in maniera diversa: quel giovane enigmatico si faceva strada tra le rovine di quella splendida civiltà con l’atteggiamento di un animale, incurante di niente altro che non fosse la sua sicurezza personale e la realizzazione del compito che gli era stato assegnato.
Il cavallo di Gil scartò bruscamente, ed emise un selvaggio nitrito di paura alzando la testa con gli occhi bianchi e rotondi spalancati. Sotto i suoi zoccoli due cose striscianti e deformi erano uscite allo scoperto da un passaggio diroccato, ed ora se ne stavano ad azzuffarsi nel mezzo della strada. Gil ebbe per un attimo una visione orrenda di piatte facce semiumane nascoste da una lercia zazzera di capelli fulvi, di corpi ingobbiti e striscianti, e di braccia simili a quelle di antropoidi deformi.
La ragazza fissò le due creature timorosa e ansante, fino a che la voce di Ingold non giunse a tranquillizzarla.
«No, lasciali perdere…»
Girandosi, Gil vide che il Falcone di Ghiaccio aveva impugnato arco e frecce dopo averle prese da uno dei carri, e si stava preparando a scagliarle contro le due creature.
Al comando di Ingold l’uomo si fermò, ed uno dei suoi sopraccigli si sollevò interrogativamente. In quei pochi istanti, le due creature scomparvero dalla strada.
Il Falcone di Ghiaccio scrollò le spalle e ripose le sue armi.
«In fondo sono soltanto doic,» affermò, come si trattasse di un fatto evidente.
Il viso di Ingold rimase senza alcuna espressione.
«Certo, anche loro…»
«Li avremo tutti intorno ai carri non appena avremo preso i viveri,» replicò senza scomporsi l’altro, neanche stesse parlando di topi.
Lo Stregone tornò ai propri affari e diede un colpo di redini alla sua coppia di cavalli.
«Potremmo aver a che fare con loro in quel momento.»
Il convoglio continuò a muoversi spingendosi attraverso le cupe ombre delle strette strade. Dopo un po’, il Falcone di Ghiaccio scosse di nuovo le spalle e scivolò verso il retro della carovana come un gatto, sistemandosi al suo posto tra le Guardie.
«Cosa sono?», chiese Gil, rivolgendosi alla Guardia più vicina, un giovane coi capelli chiari e la faccia luminosa ed ispirata di un Apprendista Galhad. «Sono… persone?»
Il ragazzo la guardò facendosi ombra contro la luce del sole che scendeva attraverso le crepe degli edifici.
«No, sono soltanto doic», ripeté, usando la stessa espressione del Falcone di Ghiaccio. «Voi non avete doic nel vostro mondo?»
Gil scosse la testa.
«Sembrano esseri umani,» continuò la Guardia, «ma in realtà sono bestie. Corrono liberi e selvaggi nei grandi spazi del Deserto dell’Ovest… le pianure al di là delle montagne ne sono piene.»
«La vostra gente li chiamerebbe Neanderthal,» aggiunse la voce calma di Ingold al suo fianco. «Se vengono catturati, sono messi al lavoro a tagliare canne nel sud, oppure nelle miniere di argento di Gettlesand, ma molti li usano anche per i lavori domestici. Si dice che siano ottimi schiavi ma, quando i loro proprietari scappano via, perdono ogni valore.»
La ripugnanza nella voce della giovane Guardia non era scomparsa.
«Non potremmo mai permetterci di nutrirli,» protestò. «I viveri sono già pochi a Karst,» aggiunse poi a beneficio di Gil. «E non mi sono mai piaciuti.»
I magazzini del grano si trovavano nelle sale della Prefettura della città, una struttura bassa e solida che formava un lato della grande piazza del Palazzo. Appena il convoglio vi giunse dinanzi, Gil si accorse che, sebbene invaso dal fuoco, il luogo non portava tracce di saccheggio. Non c’erano infatti orme fangose, sacchi di grano lacerati o granturco sparso, fino alle scale del passaggio incavato.
La piazza era abbastanza in ordine e la ragazza poté riconoscerla, anche se l’aveva vista l’ultima volta dalla finestra di una torre ormai ridotta ad un tizzone annerito: una vasta distesa di marmo scolpito, enormi cancelli di ferro con elaborati disegni, e alberi i cui rami spogli e grigi erano stati bruciacchiati dall’inferno scatenatosi durante l’ultima battaglia. Sulla sinistra si stendeva l’ombra monumentale del Palazzo, piani su piani di rovine che mostravano il loro addome sventrato: la Sala del Trono, che ora si mostrava aperta alla luce del giorno, era mezza seppellita sotto pietrisco e cenere.
Questo allora era il Palazzo di Gae, pensò Gil, osservando senza alcuna emozione quelle rovine, questa volta sveglia alla luce impietosa del sole, mentre stava seduta su un cavallo da tiro affaticato e grasso, con le mani coperte di vesciche dovute alle lunghe ore passate a stringere le redini e con gli occhi che le dolevano per la stanchezza accumulata. Questo era il luogo che le era capitato di vedere, lo stesso luogo dov’era morto Eldor, il paese che aveva conosciuto nei suoi sogni… Qui il genere umano aveva combattuto — e purtroppo perso — la sua ultima battaglia contro il Buio…
Le macerie annerite portavano chiari i segni di un saccheggio avvenuto ancora prima che le ceneri si raffreddassero.
Voci infuriate risuonarono contro le pareti di pietra della piazza con una debole eco derisoria. Riprendendosi dalla sua silenziosa contemplazione, Gil scorse un gruppetto di conducenti di carri e Guardie che si era radunato davanti alle scale ampie e basse che portavano alle porte sconquassate della Prefettura, circondando il Comandante Janus ed un grosso tipo muscoloso vestito di una tunica grezza che Gil ricordava vagamente come quello che guidava il primo carro della colonna.
«Questi uomini non scenderanno a prendere il grano», stava dicendo l’uomo. «Se le sale sono state svuotate come dici, significa che bisognerà addentrarsi nei sotterranei, il che vuol dire morte, morte certa come il ghiaccio del Nord per chi lo facesse!»
Qualcun altro assentì vivacemente nella confusione generale.
«Le sale sono infestate, infestate dal Buio. Io mi sono offerto per guidare un carro, non per affrontare quelle creature!»
Una guardia gridò:
«Bene, allora chi di voi ha pensato di scendere a prendere quel cibo?»
Janus, il volto imporporato dalla rabbia, parlò, cercando di mantenersi calmo e fissando ognuno di quegli uomini con i chiari occhi castani.
«Ogni uomo conosce il proprio coraggio. I conducenti che se la sentono, possono aiutarci a portar fuori i viveri. Degli altri non so che farmene. Falcone di Ghiaccio: ti affido il comando di quelli che rimangono quassù. Prendi dodici Guardie e ammazza chiunque o qualunque cosa si avvicini ai viveri una volta che siano stati portati qui. Falli caricare subito e siate pronti a muovervi al più presto.»