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«Ecco perché è ruvido, mentre il resto del pavimento è così liscio,» pensò Gil. «Nessuno ci cammina sopra. Nessuno ci ha mai camminato sopra. Perché?»

Il ricordo sparì come era arrivato, e persino l’idea che i due sogni fossero collegati tra loro, ebbe il solo effetto di una curiosità passeggera. Gil fece poco sforzo per cercare di ignorare quanto le era tornato alla memoria, e tutto tornò alla normalità fino a che non si verificò il terzo sogno.

Nulla disturbò la sua esistenza giornaliera; continuò a frequentare le sale della Biblioteca dell’Università alla ricerca di articoli ed esaminando le cronache di alcune città inglesi nel Medio Evo. Prese anche molti appunti che alla fine si vide costretta a riordinare, com’era solita fare, sul tavolo della cucina del suo appartamento di Clarke Street, cercando di dare un senso logico a tutta quella massa di dati. Classificò carte non classificate, si affannò su una proposta di borsa di studio, ed intanto continuava la normale routine della sua vita incontrandosi con i suoi amici e con qualche innamorato. Poi sognò di nuovo quella città assediata!

Si trovava in piedi nel vano dell’alta finestra di una torre. Il bagliore della luna era tanto luminoso che riusciva a distinguere il pavimento del cortile molto più in basso, e le incisioni sulle maniglie di ferro battuto dei cancelli: scorse l’ombra di una foglia che cadeva, e perfino una sottile crosta di polvere sul terreno. Alzando gli occhi invece, riuscì a spingere lo sguardo oltre l’intricato labirinto delle cime degli alberi, e scorse il luccichio dell’acqua in lontananza. Nella direzione opposta, le nere falde delle montagne si stagliavano in distanza contro l’orlo di un cielo gonfio di stelle.

Nella stanza dietro di lei una solitaria lingua di fiamma si levava dall’argento lucido della lampada sul tavolo e, al chiarore di quella piccola luce ondeggiante, riuscì a distinguere i mobili — pochi e semplici — ognuno dei quali era lavorato in ebano ed avorio. Sebbene il loro disegno e le forme le risultassero estranee, riconobbe in quegli oggetti l’afflato creativo di una tradizione salda e stabile, il prodotto di una cultura sofisticata e raffinata.

Si accorse di non essere sola. Contro la parete più lontana della caverna vi era il mobile più grande, un letto d’ebano massiccio la cui spalliera, decorata con fili di madreperla, rifrangeva l’esile luce dalla lampada. Sopra al letto, quasi nascosto dalle ombre impenetrabili, si poteva intravedére un alto baldacchino istoriato con un emblema d’oro a rilievo: un’aquila stilizzata in picchiata, sormontata da una minuscola corona.

Lo stesso emblema era ripetuto sui luccicanti bottoni d’argento del soprabito scuro che apparteneva all’uomo in piedi accanto al letto, il capo chino, silenzioso come una statua, intento ad osservare la figura addormentata. Era un uomo alto, dall’aspetto gradevole pur nella sua austerità. Qualche filo d’argento spiccava tra la folta capigliatura bruna che gli scendeva lunga fino alle spalle, sebbene Gil non gli attribuisse più di trentacinque anni.

Dalla suola dei suoi stivali di pelle morbida fino alle pieghe del mantello ondeggiante che copriva soprabito e tunica, l’abbigliamento dell’uomo dava l’impressione di ricchezza — in tono con la sommessa eleganza della stanza — infatti, pur essendo semplice, era perfettamente confezionato con una stoffa costosa. Le gemme sull’elsa della spada che spuntava dal mantello, lucevano come stelle alla luce fioca della lampada, seguendo il leggero movimento del suo respiro.

Un rumore nel corridoio gli fece alzare la testa e Gil riuscì a scorgere il suo viso, spaventato dal timore di terribili notizie. Poi la porta accanto a lui si aprì.

«Sapevo di trovarti qui,» disse lo Stregone.

Per un attimo Gil ebbe l’assurda idea che si stesse rivolgendo a lei. Ma l’uomo in nero annuì, aggrottando la fronte per l’intensa concentrazione circa qualche problema da risolvere, e la sua mano continuò a sfiorare i cerchi sollevati in spire della spalliera del letto.

«Stavo scendendo,» si scusò l’uomo con voce soffocata, il viso rivolto per metà indietro. «Volevo soltanto vederlo.»

Lo Stregone chiuse la porta. Il movimento dell’aria fece tremolare la fiamma della lampada, e la sua luce incerta illuminò per un breve istante le rughe scavate dal sole intorno ai suoi occhi, che mostravano quella stessa espressione di stanchezza e di tensione. Gil vide che anche il vecchio portava una spada sotto la stoffa grossolana del mantello. La sua elsa non era però ingioiellata, e rivelava il lungo uso che ne era stato fatto nel corso degli anni. Egli disse:

«Non ce n’è alcun bisogno. Dubito che attaccheranno ancora, stanotte.»

«Stanotte…», gli fece eco con voce triste l’uomo in nero. I suoi occhi color grigio fumo rilucevano come acciaio nella densa ombra della piccola stanza. «E che mi dici di domani, Ingold? E della notte successiva? Si, è vero, stanotte siamo riusciti a respingerli negli abissi dove dimorano. Abbiamo vinto. Ma cosa è successo nelle altre città del Regno? Cosa hai visto nella tua sfera di cristallo, Ingold? A Penambra, nel Sud, dove ora sembra che anche il Re sia stato assassinato, i Neri scorrazzano per le sale del suo palazzo come spettri impazziti. Nelle province lungo la Valle del Fiume Giallo, a Est, tu stesso mi ricordi che esercitano un tale potere che nessun uomo si azzarda ad uscire di casa dopo il tramonto. A Gettlesand poi, sulle montagne, la paura dei Neri è così forte, che gli uomini rimangono chiusi tra le pareti domestiche mentre i Razziatori Bianchi cavalcano nelle pianure bruciando e saccheggiando a loro piacimento!

«L’esercito non può essere dovunque. Quei maledetti si sono sparsi nei quattro angoli del Regno anche se la maggior parte di loro si trova a Penambra. Noi, qui a Gae, non potremo resistere per sempre. Forse non riusciremo neppure a tenere il Palazzo se dovessero tornare domani notte.»

«Questo lo sapremo domani», replicò pacatamente lo Stregone. «Noi possiamo soltanto fare ciò che dobbiamo… e sperare!»

«Sperare!» Lo disse senza vergogna o ironia; solamente il suono di quella parola sembrò goffo sulla sua lingua quasi fosse un termine poco familiare. «Sperare in cosa, Ingold? Che il Consiglio degli Stregoni infranga il suo silenzio o che le mura di Quo si spalanchino per farli uscire dai loro nascondigli? Sperare che — se e quando lo faranno — siano capaci di darci una risposta?»

«La parola speranza ha un suono troppo amaro sulle tue labbra, Eldor. E Dio solo sa quanto sia scarsa in tutti noi!»

Eldor si girò e cominciò a camminare per la stanza come un leone in gabbia, giungendo fino alla finestra per poi tornare ancora indietro sui suoi passi. Calpestò un piede di Gil, ma non diede segno di essersene accorto. Ingold, lo Stregone, invece alzò gli occhi, ed il suo sguardo indugiò brevemente su di lei. Eldor intanto continuava a camminare, ed il suo braccio sfiorò le mani di Gil appoggiata sul davanzale della finestra.

«È l’impotenza che non riesco a sopportare!», urlò con voce rabbiosa. «È la mia gente, Ingold, il Regno — e tutta la civiltà, se ciò che dici è vero — che stanno andando in rovina, ma né tu né io possiamo offrire loro altro che uno scudo dietro il quale nascondersi. Tu puoi dirmi cosa sono i Neri e da dove provengono, ma i tuoi poteri non possono colpirli in alcun modo! Tu non sei in grado di dirci cosa fare per sconfiggerli definitivamente. Puoi solamente combatterli, come facciamo tutti, con una semplice spada!»