Выбрать главу

Aveva quasi abbandonato ogni speranza quando sporse, in lontananza, il pallido riflesso della luce bianca contro il granito scuro dei pilastri. Corse verso la luce giungendo infine in uno slargo aperto in quella foresta di pietra dove la luce della sua torcia illuminò lo spazio della scala di porfido che si curvava verso l’alto sui resti delle ciclopiche porte di bronzo: non c’era nient’altro oltre di esse, soltanto l’Oscurità.

Tra le macerie di vecchi mobili e scatole di paglia, Gil poté distinguere alcuni scheletri: ossa sparse tra i pilastri, spogliate dal Buio della loro carne. Accanto ai suoi piedi, un fodero di spada era stato liberato dalla lama che conteneva e alcune mele secche erano sparpagliate in terra tra i teschi.

Riconobbe il luogo. Quella familiarità le fece battere forte il cuore ed il rombo del sangue l’assordò. Nessun pezzo di granito però rompeva la liscia regolarità del basalto del pavimento. Era rimasto solamente un grande buco rettangolare che si presentava alla vista nero e aperto: era il blasfemo cancello dell’Inferno!

Dal pavimento scendevano delle scale buie, indicibilmente antiche, fredde, di un orrore agghiacciante… le stesse scale che aveva intravisto nei suoi sogni…

Il freddo umido che spirava da quella oscurità le colpì il viso ricordandole il risucchiante sentore del Caos primordiale… un male al di là della comprensione del genere umano!

Ne emanavano però anche un’irresistibile malìa, un fascino simile a quello del luccichio distante di una lampada per qualcuno che si è perso… E c’era qualcos’altro: la fioca luce bianca che Gil stava cercando, si riverberava sugli archi del soffitto, e si allungava sui lineamenti rigidi di un teschio, scivolando nella delicata rotondità delle ossa di orbite ormai vuote.

Le mani di Gil tremavano, ma riuscì a curvarsi e ad afferrare una spada che giaceva sul pavimento tra un cumulo di ossa corrose come da un acido.

Il peso dell’arma tra le dita la tranquillizzò: si sentì meglio, più calma e meno timorosa. Tenendo alta la torcia, camminò fino al margine dell’abisso.

Giù, lungo le scale, illuminata dal chiarore fulgido del suo bastone, riuscì a scorgere la sagoma di Ingold.

Lo Stregone stava immobile come una statua, circa cinquanta scalini sotto di lei, proprio nel punto nel quale le scale curvavano e si perdevano alla vista negli abissi profondi della terra. Il suo viso era assai attento, quasi stesse ascoltando qualche rumore che Gil non riusciva a percepire.

L’uomo teneva la spada nel fodero e la mano destra gli pendeva vuota e inerte al fianco.

Non appena Gil riuscì a scorgerlo, Ingold prese a muoversi con l’andatura esitante e lenta di qualcuno sotto ipnosi, scendendo un gradino dopo l’altro, quasi fosse in trance o stesse inseguendo una musica incantata.

Gil si rese conto che dopo un altro gradino o due, l’avrebbe perso completamente di vista, a meno che non decidesse di seguirlo.

«Ingold!», gridò Gil disperatamente.

L’uomo si girò verso di lei e le gettò un’occhiata inquietante.

«Si, mia cara?»

La sua voce echeggiò dolcemente risuonando contro l’oscurità delle pareti. Poi si guardò intorno fissando le scale ed aggrottando le ciglia come se fosse sorpreso di trovarsi in quel posto. Si girò quindi di nuovo a guardare verso il basso, e Gil ricordò con terrore di avergli sentito dire, una volta, che la curiosità era la caratteristica predominante di un buon Mago e che questi avrebbe inseguito un enigma fin sull’orlo della propria tomba.

Per un attimo ebbe l’impressione che stesse giocando con l’affascinante idea di scendere per quelle scale misteriose, di cacciarsi consapevolmente nella trappola soltanto per vedere cosa contenesse.

Alla fine si girò verso di lei e salì, mentre l’oscurità sembrava svanire con l’avanzare della sua luce. Salì per starle accanto e chiese, abbastanza calmo:

«Lo senti?»

Gil scosse il capo, muta e spaventata.

«Cosa?»

I suoi occhi blu rimasero fissi per un attimo sul volto di lei, poi guardarono altrove, verso il buio infinito. Le sue sopracciglia bianche si aggrottarono in un movimento ormai familiare, come se la sua mente fosse occupata da un mistero, dimentico del pericolo intorno a loro.

Gil invece avvertì nettamente la presenza di qualcosa di minaccioso, una presenza che stava guardando e attendendo nelle ombre, e che era pronta a spingerli, a guidarli in quella voragine maledetta.

Quando riprese a parlare, la voce rauca di Ingold era abbastanza calma.

«Davvero non senti niente?»

«No», rispose piano Gil. «Tu cosa senti?»

Lo Stregone esitò, poi scosse la testa.

«Niente…», mentì. «Devo essere più stanco di quanto pensassi. Io… io credevo… cioè, non credevo di essere sceso tanto giù. Non era nelle mie intenzioni.»

Quella nota di incertezza nella sua voce, e l’ammissione di quanto fosse stato vicino a cadere in una trappola, scosse Gil. Ingold corrugò ancora la fronte fissando l’oscurità che si apriva sotto i suoi piedi, sforzandosi di acquisire una nuova conoscenza, sconcertato non tanto dall’oscurità, quanto da qualcos’altro di altrettanto sfuggente.

Poi alzò le spalle e smise di pensare.

«Sei venuta sola?», chiese.

Gil annuì. Era una figura dall’aspetto tragico nei suoi jeans logori, con una torcia di resina in mano e la pesante spada presa in prestito da un cadavere, nell’altra.

«Anche gli altri ti stanno cercando,» disse, senza aggiungere nessuna spiegazione del perché solo lei era giunta fin là.

«Grazie,» rispose calmo Ingold, e le poggiò una mano sulle spalle. «È molto probabile che tu mi abbia salvato la vita. Io… mi sento come fossi stato colpito da un incantesimo… come se…» S’interruppe e scosse la testa per schiarirla. «Vieni!», disse infine «Questa strada è più corta. Tieni la spada…», aggiunse poi, quando si accorse che stava per deporla dove l’aveva trovata. «Potresti averne bisogno. Al proprietario non servirà più!»

Quando il convoglio raggiunse Karst, l’aria era diventata gelida e il giorno stava ormai volgendo al crepuscolo. Avevano viaggiato lentamente perché i cavalli erano stanchi, la strada inzuppata e fangosa, ed i carri molto più pesanti dell’andata.

Lungo il cammino, tra l’altro, erano stati spesso fermati da uomini e donne che avevano piantato il loro campo nei boschi e correvano verso di loro elemosinando qualcosa da mangiare. «Solo un po’… solo un po’…»: era quella la richiesta, sempre la stessa.

Janus, che guidava il carro di testa, scuoteva sempre il capo.

«Divideremo il cibo a Karst…»

«Bah!» Una donna coperta di una consunta veste rossa, sputò in terra. «Karst: anche se riuscite ad entrare nella città, non siate sicuri di essere i primi ad afferrare qualcosa!»

Il Comandante la fissò con uno sguardo freddo come la pietra.

«Scostati!», le disse, poi strinse le ginocchia intorno al suo cavallo nero e passò oltre. Gli altri carri non si erano nemmeno fermati.

«Porco!», gli gridò dietro la donna e si curvò per raccogliere una pietra dalla strada. Colpì la schiena di Janus tanto forte da sollevare della polvere dal suo logoro giaccone di pelle, ma lui non si girò. «Tutti voi siete dei maiali!»

Non era certamente questo che Gil si aspettava. Con le braccia strette intorno alla testa del suo cavallo, ed aggrappandosi alle briglie per non cadere, credeva di essere accolta almeno con un po’ di gioia in città. Ma, pensò cinicamente, le persone sono persone… Nessuno reclamerà il carico di viveri, a meno di ottenere per primo qualcosa. Guardò indietro lungo la fila dei carri, ma non vide nessuno dei suoi sentimenti, riflessi sui volti stanchi e sporchi delle altre Guardie.