«Va bene,» disse con tutta l’allegria che poteva racimolare in quella circostanza. «Incontratevi al Palazzo Comunale tra un’ora.»
I due si allontanarono senza attendere altro, mentre Rudy cominciava a tornare sui suoi passi dirigendosi verso la casa di Alwir e ripetendosi di continuo il modo col quale avrebbe potuto conquistarsi la fiducia di Alde e — cosa più importante — quella di Medda, per cercare di penetrare all’interno della casa.
Gil e il Falcone di Ghiaccio scelsero un’altra direzione, tenendosi istintivamente accostati alle mura delle case e facendosi guidare dal riflesso rosso dei fuochi nella piazza della città. La notte era particolarmente buia e Gil provò una sorta di gelida paura sentendosi in trappola in quella strada stretta e circondata dalle alte mura dei palazzi. Il mantello e la spada le si infilavano tra le gambe facendola incespicare di continuo, mentre avanzava tentando di mantenere il passo veloce del giovane davanti a lei.
Giunti a poca distanza dalla folla raggruppata intorno ai falò della piazza, il Falcone di Ghiaccio si fermò, ed alzò la testa per ascoltare qualcosa, neanche fosse veramente simile all’animale del quale portava il nome.
«Lo senti?»
La sua voce fu appena un bisbiglio nell’oscurità, ed il suo viso ed i capelli bianchi spiccarono come una macchia orlata dal riflesso ondeggiante delle fiamme lontane.
Anche Gil si fermò ad ascoltare la fredda calma della notte. Il vento che portava con sé il profumo dei pini dei boschi, spingeva i rumori oltre la città. Erano lontani, trasformati dalla distanza, ma inequivocabili. Da quell’oscurità che circondava le mura di Karst, il vento accompagnava il suono delle urla.
I Guerrieri del Buio erano arrivati a Karst!
Non si trattò di una vera e propria battaglia, quanto di infinite azioni di retroguardia condotte nei boschi infestati da compagnie di Guardie, truppe della Chiesa e da qualche mercenario al soldo delle famiglie nobili e di quelle dei proprietari terrieri. Qualche pattuglia uscì dalla luminosa fortezza centrale della piazza e riuscì a riportare al riparo gruppi di profughi terrorizzati, i dispersi che erano sopravvissuti a quel primo, violento assalto.
Gil, che si era trovata — spada in mano — a lottare insieme al Falcone di Ghiaccio, ricordò il primo incubo che l’aveva condotta a Gae, e continuò a chiedersi in un angolo della mente se lo avesse ritenuto veramente spaventoso. Allora sapeva esattamente dove fosse il pericolo; a Gae c’erano la luce delle torce, le pareti delle case, la gente. Qui invece l’incubo si insinuava silenziosamente attraverso i boschi, apparendo e scomparendo in una sorta di gioco perverso.
Non c’era mai un preavviso, soltanto una vasta oscurità fluttuante che si abbatteva improvvisa sulle torce tra un battito e l’altro delle palpebre. Allora si spalancavano soffici bocche, come grandi veli setosi orlati di acido, mentre comparivano artigli pronti a lacerare e ad uccidere. Le vittime erano soltanto una pila di ossa spolpate e rosse di sangue tra i frammenti di un falò ancora mezzo acceso. Una madre giaceva distesa sul corpo del figlio mentre, a pochi passi di distanza, un’altra donna, forse ancora una madre, rimaneva in ginocchio, le labbra spalancate in un grido silenzioso, gli occhi sbarrati a fissare un orrore che non lasciava speranze.
Gil si sentì insensibile a quelle scene; non provava nessun senso di paura e neppure si sentiva travolgere dalla nausea alla vista dei cadaveri straziati. Piuttosto si sentiva pervadere da una rabbia gelida, quasi fosse diventata un felino pronto ad uccidere senza alcun timore o rimorso.
In quei primi minuti di caos, la ragazza ed il Falcone di Ghiaccio tornarono velocemente sui loro passi verso la Corte delle Guardie.
Vi trovarono una gran confusione di uomini che si armavano, compagnie che si andavano formando, e la voce squillante di Janus che riusciva a raggiungere tutti anche attraverso quella barriera di suoni, chiedendo volontari.
Poiché Gil era in possesso di una spada, fu afferrata da qualcuno e sbattuta senza tanti complimenti in una delle compagnie e, in poco tempo, si trovò, ancor prima di aver potuto dire una parola, fuori delle mura insieme a pochi compagni, armati di qualche spada e delle loro torce, a combattere contro l’Oscurità.
Si trovò, senza neanche sapere come, in testa alla pattuglia e, solo allora, riuscì a voltarsi ed a gridare all’indirizzo del Falcone di Ghiaccio:
«Io non so affatto come usare una spada!»
L’uomo le gettò un’occhiata gelida.
«Allora non dovresti portarne una,» rispose.
Qualcun altro le poggiò una mano sulla spalla e la tirò indietro. Era Seya, la donna che aveva incontrato quella mattina accanto ai carri.
«Mira al centro del corpo», spiegò velocemente a Gil. «Colpisci diritto o, se non ci riesci, usa il taglio della spada. C’è un fermo accanto all’impugnatura, vedi? Comunque tieni l’elsa con entrambi le mani… No, non così: ti romperesti subito i pollici. Cerca sempre di avvicinarti per uccidere, soprattutto a chi è più grande di te, e quelle creature lo saranno di sicuro! Hai capito? Il resto verrà da sé più tardi: per adesso cerca di rimanere nel centro del gruppo, e non andarti a cacciare in situazioni che non sei sicura di poter affrontare!»
Parola d’ordine per questa notte… pensò Gil contrariata.
Fu però ugualmente sorprendente — quando la massa scura e ribollente si riversò fuori dell’oscurità nebbiosa tra gli alberi — quanto riuscì a ricordare di quella frettolosa ed improvvisata lezione. Imparò immediatamente il primo principio di ogni disciplina marziale: sopravvivere o non sopravvivere ad uno scontro, era l’unico risultato che contasse in qualsiasi sistema o tecnica!
In un certo senso le sembrò tutto facile, perché quei corpi nebulosi offrivano scarsa resistenza al metallo affilato. Era un gioco nel quale la velocità e la precisione contavano più della forza: i Guerrieri del Buio si muovevano veloci, e bisognava batterli proprio sul loro terreno.
Quello che Seya aveva dimenticato di dirle era che quelle creature emanavano un terribile fetore di sangue marcio. Né le aveva descritto il modo con il quale ogni pezzo tagliato cominciava a spargere intorno sangue umano ed un liquido nerastro, prima di disintegrarsi.
Gil si trovò quasi a suo agio in quel pandemonio di alberi scuri, fuoco, morte e fuga.
Capì anche che provava meno paura nell’attaccare che nel difendersi e che, per quanto sonno avesse potuto avere nelle ultime quarantotto ore, riusciva a superare ogni stanchezza quando lottava per la pura e semplice sopravvivenza.
Gil lottò fianco a fianco con le Guardie di Gae e con i cenciosi volontari che li accompagnavano coperti di tuniche grezze.
Corse attraverso la notte, seguendo sempre la scia dei soldati che la precedevano, e con loro camminò nei boschi come in compagnia di un branco di lupi, radunando i fuggitivi che incontravano qua e là perduti e terrorizzati, per riportarli indietro verso Karst.
Si sentì pervadere dalla gelida elettricità della lotta, che le fece perdere la cognizione di quanto stesse accadendo, allontanando da lei stanchezza e paura.
Intanto, la dozzina di guerrieri della compagnia del Falcone di Ghiaccio, aveva già riunito quasi cinquanta profughi. Questi se ne stavano stretti in un cordone irregolare, e qualcuno di loro — quelli che potevano farlo — impugnavano delle torce. Molti degli altri non volevano rinunciare ai loro averi e continuavano a tenere stretti il denaro e il cibo; una trentina di donne aveva anche dei bambini in braccio.