«Forse non c’è niente da fare!», rispose Ingold appoggiandosi allo schienale di una sedia.
Intrecciò le mani, ma i suoi occhi erano attenti e vigili.
«Non posso accettarlo.»
«Devi accettarlo.»
«Non è vero! Tu sai che non è vero!»
«Il genere umano sconfisse l’Oscurità migliaia di anni fa,» replicò pacatamente lo Stregone mentre il tremolio della lampada creava curiose figure sui lineamenti del suo viso smunto, segnato da molte cicatrici. «Come ciò sia potuto avvenire, non si sa! Forse anche i Neri ignorano come sia accaduto; in ogni caso, non abbiamo trovato nessuna registrazione di quei lontanissimi avvenimenti. Il mio Potere non può influire sui Neri perché non li conosco, e non capisco né la loro essenza, né la loro natura. Essi possiedono un proprio Potere, Eldor, molto diverso dal mio, al di là della comprensione di qualsiasi Stregone, eccetto, forse, Lohiro, il Capo del Consiglio di Quo. Di ciò che accadde al tempo dell’Oscurità, tremila anni fa, quando essi sorsero per la prima volta a devastare la Terra… tu ne sai quanto me!»
«Sapere?» Il Re sorrise amaramente fissando lo Stregone con i suoi occhi cupi, quasi fosse un lupo pronto ad attaccare. «Lo ricordo bene. Chiaramente: come fosse successo a me e non a qualche mio lontanissimo avo!» Si avvicinò quindi allo Stregone e la sua ombra lo oscurò come quella di un enorme albero colpito dal fulmine. Il chiarore tremolante della piccola lampada confuse quell’ombra con le altre che incombevano nel minuscolo ambiente. «E anche lui ricorda…»
Allungò una mano verso il letto, e l’ombra sembrò rimbalzare sulla parete per scendere ad oscurare il bambino che vi dormiva tranquillo.
«Radicati in profondità nella sua mente di fanciullo, lì sono conservati quei ricordi. Ha appena sei mesi… sei mesi… tuttavia anche lui dovrà svegliarsi piangendo! Cosa può sognare di tanto terribile un bimbo così piccolo, Ingold? Il Buio, soltanto il Buio. Lo so!»
«Si!», assentì lo Stregone pensieroso, «Anche il tuo sonno è turbato da quei sogni. Tuo padre non ha mai sognato il Buio: dubito che quell’uomo abbia mai provato paura o sia riuscito ad immaginare qualcosa di diverso dalla vita di ogni giorno; quelle memorie erano rinchiuse troppo profondamente in lui. Forse, più semplicemente, lui non aveva alcun bisogno di ricordare. Ma per te è stato diverso: tu l’hai sognato, e ne hai avuto paura anche se ancora non sai cosa sia quell’Oscurità.»
In piedi, rannicchiata nel freddo vano della finestra, Gil percepì il legame che univa quei due uomini: era una sensazione addirittura palpabile, una parola, un contatto reale e concreto.
Il pensiero di un goffo ragazzo dai capelli scuri che si svegliava piangendo a causa di incubi tremendi, confortato solamente da uno Stregone vagabondo, la commosse profondamente. Il viso di Eldor lasciò intravedere un’ombra aspra, ed il tono sinistro svanì dalla sua voce lasciando il posto ad una tristezza infinita.
«Sarei dovuto rimanere all’oscuro di tutto,» disse. «La mia gente nasce già adulta, e non conosce mai le gioie della fanciullezza: le nostre stesse memorie diventano la maledizione che segna la razza!»
«Ma esse possono anche diventare la sua salvezza», replicò Ingold. «Ed anche quella di tutti noi.»
Eldor sospirò e ritornò accanto al letto riflettendo in silenzio, le mani sottili e forti intrecciate dietro la schiena. Ora però non stava più guardando il bimbo addormentato: i suoi occhi meditavano nell’ombra ed erano meno lucidi, spersi in un’epoca passata e lontana. Sondavano esperienze di altri uomini, in altre ere.
«Vuoi farmi un ultimo favore, Ingold?»
Lo sguardo del vecchio si posò su di lui.
«Nel tuo vocabolario non deve esistere la parola ultimo!»
I lineamenti del volto di Eldor si contrassero in uno stanco sorriso; era da sempre abituato alla testardaggine dello Stregone.
«Alla fine,» rispose, «c’è sempre un’ultima ora. Lo so! Il tuo Potere non può nuocere ai Neri,» riprese, «ma può però eluderli. Ti ho visto farlo. Quando scenderà la notte in cui sorgeranno di nuovo, il tuo Potere ti permetterà di fuggire, mentre io ed i miei uomini rimarremo a combattere e a morire. No!»
Eldor alzò una mano in un gesto imperioso a prevenire la reazione dello Stregone.
«So già cosa vuoi dirmi. Ma non mi interessa: voglio che tu te ne vada… Non puoi farci nulla! Te lo ordino come tuo Re! Quando verranno — e lo faranno — porterai via con te mio figlio Altir!»
Lo Stregone rimase seduto immobile, senza muovere un muscolo, ma la sua barba irta tradiva la tensione che lo stava lacerando. Vincendo a fatica l’impulso di ribellarsi, non poté impedirsi una protesta sommessa:
«Sotto un certo aspetto tu non sei il mio Re…»
«Allora te lo chiederò come amico», rispose Eldor, e la sua voce si abbassò fino a diventare un sussurro. «Tu non puoi certo salvarci. Forse solo qualcuno di noi, ma a che cosa servirebbe? Certo, tu sei un grande spadaccino, Ingold, forse il più grande spadaccino vivente, ma il contatto con un Nero significa la morte per te come per chiunque altro. È scritto su qualche libro che il nostro destino debba compiersi qui. Essi ritorneranno: è sicuro come è vero che a Nord c’è ghiaccio. Tu però puoi salvare Altir… Lui è l’ultimo della stirpe dei Dare di Renweth — l’ultimo della stirpe dei Re di Darwath — ed è anche l’unico nel Regno che possa ricordare il Tempo del Nero… La storia stessa lo ha dimenticato: non esiste alcun documento di quell’epoca, neanche una menzione nelle antiche cronache. Mio padre addirittura non ricordava assolutamente nulla, e i miei stessi ricordi sono incompleti e frammentari… Ora c’è bisogno di qualcuno che riesca a ricordare tutto: è il momento che lo richiede. Tremila anni fa i Neri spazzarono virtualmente via il genere umano dalla faccia della Terra. Poi sparirono. Perché scomparvero, Ingold? Perché?»
Lo Stregone scosse il capo.
«Altir lo sa!», continuò Eldor con la stessa voce sussurrante. «Mio figlio lo sa! E lui potrà riuscire là dove i miei ricordi si fermano: te l’ho ripetuto anche troppe volte. È lui la Promessa, Ingold! Io sono solamente una speranza fallita, una candela in procinto di lanciare i suoi ultimi barbagli di luce. In qualche angolo della memoria della stirpe di Dare è nascosto l’indizio — dimenticato finora da tutti — che ci aiuterà a sbaragliare i Neri. In me è nascosto troppo profondamente, ma mio figlio è l’unico che potrà rivelare quel segreto. È lui quello da salvare!»
Lo Stregone ascoltò in silenzio le parole di Eldor. La fiamma silenziosa della lampada, pura e piccola come una moneta d’oro, si rifletté nei suoi occhi pensierosi. Nella stanza non si udiva alcun rumore. Il bagliore della fiammella era immobile: una piccola pozza di oro fuso che circondava la base della lampada sul tavolo, una macchia di luce dai contorni definiti.
«Che ne sarà di te?», sussurrò lo Stregone.
«Un Re ha il diritto,» replicò tranquillo Eldor, «di morire con il suo popolo. Io non diserterò la battaglia finale e, anche se volessi, non potrei mai farlo. Ora, per tutto l’amore che mi hai sempre dimostrato, fai questo per me: prendi mio figlio e portalo in un luogo sicuro. Te lo affido: adesso è nelle tue mani!»
Ingold sospirò, e chinò il capo in un gesto di rassegnata obbedienza. Il chiarore della lampada si sparse sui suoi capelli grigi.
«Lo salverò!», rispose. «Te lo prometto! Ma non puoi impedirmi di rimanere con te fino al momento in cui dovrò ubbidire al tuo ordine, quando non ci sarà più alcuna speranza.»
«Non preoccuparti di questo,» replicò aspramente il Re. «La causa è già senza speranza.»