Senza pronunciare una parola, il Comandante della Guardia di Gae fece un passo avanti, si inginocchiò davanti al Mago, e baciò le sue mani escoriate. Di fronte a questo gesto di fedeltà, il Cancelliere ed il Vescovo si scambiarono un’enigmatica occhiata di disapprovazione per il comportamento della Guardia.
Le parole del Comandante Janus echeggiarono nel corridoio deserto:
«Pensavamo che te ne fossi andato via…»
Ingold sfiorò la testa china dell’uomo, poi lo fece rialzare e gettò uno sguardo verso Alwir.
«Giurai che avrei rivisto Tir in un luogo sicuro» rispose con calma, «e così farò… No, non sono andato via: a dire il vero, mi trovavo… in prigione.»
«In prigione?» Le spesse sopracciglia di Janus incorniciarono, aggrottandosi, i suoi occhi arrossati. «Per ordine di chi?»
«L’ordine di detenzione non era firmato», disse il Mago con la sua voce più dolce. «Solo sigillato con il Marchio Reale. Chiunque abbia accesso a quel Sigillo avrebbe potuto farlo.» La luce della torcia si rifletté negli occhi di Janus. «La cella poi è stata chiusa con il Segno della Catena…»
«L’uso di quella pratica è illegale!», commentò Govannin incrociando le braccia scheletriche con i suoi occhi scuri da lucertola nei quali non brillava neanche un’emozione. «E sarebbe stata un’azione veramente sciocca ordinare una cosa così in un momento come questo…»
Alwir scosse il capo.
«Io certamente non ho firmato un tale ordine», disse con voce incrinata dall’imbarazzo. «Per quanto riguarda il Segno Magico poi, c’erano delle dicerie che si trovasse da qualche parte tra i tesori del palazzo di Gae, ma ho sempre pensato che fosse una delle tante vecchie leggende. Sono contento però che tu sia riuscito ugualmente a fuggire ed a farlo in tempo per venire in nostro soccorso. Il tuo arresto è stato, evidentemente, un errore da parte di qualcuno!»
Lo sguardo del Mago si posò prima sul volto del Cancelliere, poi su quello del Vescovo, ma non disse altro che:
«Ovviamente…»
Molto più tardi, quando ormai era mattino avanzato, Rudy ritornò indietro sui suoi passi verso la cella senza porta, ora vuota ed aperta. Aveva intenzione di recuperare quell’oscuro sigillo e di gettarlo in qualche pozzo, preferibilmente molto profondo.
Quando però raggiunse la cella, anche se il posto era in ordine, e dopo aver cercato a lungo tra le ossa polverose e mummificate nella nicchia, non riuscì a trovarne traccia da nessuna parte.
Qualcuno era stato lì prima di lui…
CAPITOLO OTTAVO
«Starà bene?»
«Se il braccio non si infetta, si.»
Le voci giungevano distinte alle orecchie di Gil, anche se tra lei e loro c’era una sorta di barriera nebulosa quasi fosse un sogno nel quale lei poteva comprendere tutto, ma senza sapere in quale maniera riuscisse a farlo. Come in fondo ad un pozzo profondissimo, riuscì ad alzare gli occhi e scorse, lontana, l’alta figura di Alwir che si stagliava contro il sole oscurandolo quasi fosse una nuvola. Accanto a lui stava il Falcone di Ghiaccio, luminoso e freddo come il vento. Ma l’acqua del pozzo nel quale giaceva era percorsa da una sottile sofferenza, una sofferenza bruciante e luminosa, chiara come il cristallo.
La voce di Alwir continuò.
«Se si infetta lo perderà.»
«Nessuno sa dov’è Ingold?», chiese il Falcone di Ghiaccio.
«Chi lo sa? Una delle sue prerogative è quella di sparire di quando in quando.»
Maledetto!, pensò Gil in preda ad un’improvvisa rabbia cieca. Maledetto, maledetto, maledetto!!
Alwir si spostò, ed un raggio di sole la colpì negli occhi come la lama di un coltello. Gil girò convulsamente il volto per sfuggire, ed il movimento le procurò una fitta accecante di dolore che le attraversò le ossa del braccio sinistro. Pianse in preda ad una disperazione simile ad un’agonia.
Nel suo delirio cominciò a sognare, e nel suo sogno cominciò a ripercorrere la lunga strada che l’aveva condotta fin lì. Dal posto buio nel quale giaceva, poteva scorgere la sua cucina illuminata nell’appartamento di Clarke Street: un cumulo di tazze di caffé ancora da lavare ed un gran numero di vecchi giornali coprivano il tavolo, mentre il suo lavoro, la tesi destinata a rimanere incompleta, era sparso sul pavimento della stanza, ogni foglio simile ad una manciata di erba appassita.
Le sembrava di essere ancora vicina a quella vita, a pochi passi da casa, dall’Università, dall’esistenza calma e tranquilla di una studentessa modello, dagli amici, e dalla sicurezza del proprio tempo e del proprio spazio.
Sentì squillare il telefono, e capì che si trattava di una delle sue amiche che la stava cercando. Chissà da quanto tempo continuavano a telefonarle? Forse si sarebbero preoccupate, ed avrebbero cominciato a cercarla. Il pensiero della loro preoccupazione e della paura per la sua sorte che poteva nascere in loro, le fece male quasi quanto la ferita al braccio. Cercò di muoversi per andare fino alla cucina e poter finalmente rispondere. Ma c’era Ingold a sbarrarle la strada.
Incappucciato, la lama sguainata che riluceva come fosse cosparsa di fosforo, si fermò davanti a lei, una forma scura che mutava e volteggiava in balia di un vento misterioso.
Qualsiasi cosa cercasse di fare, lui era sempre sulla sua strada.
Gil cominciò a gridare: «Lasciami andare, lasciami andare!», in un attacco parossistico di furia impotente. Poi il vento colpì, sollevandolo come una grande ala scura, il mantello del Mago e, nello stesso istante, la sua figura divenne quella di un Guerriero del Buio che attraversava veloce l’aria.
La ragazza cercò di correre via, ma il mostro era già su di lei, ed allora cercò di lottare con la spada che le era comparsa tra le mani. Non appena la lama toccò quella creatura infernale, le sue fauci scattarono richiudendosi sul suo braccio lanciando uno sbuffo di acido che le bruciò la carne facendola urlare dal dolore.
Vide il suo braccio ridotto ad un ammasso di ossa e carne lacerata, poi vide una mano che si tendeva a sfiorarlo e a toccarlo modellando ed impastando i resti squarciati del muscolo quasi fossero di creta. Nel suo sogno comparve la figura di un uomo curvo su un banco di legno ed intento a modellare stucco ed a mescolare cere colorate.
Quella mano era di Ingold, riconoscibile dai segni e dalle tracce più chiare di antiche cicatrici, callose per il tempo passato a stringersi intorno all’elsa di una spada… Là c’era lui, stanco e trasandato, che la fissava con i suoi occhi luminosi cerchiati e segnati da un’enorme fatica.
Gil allungò una mano a toccarlo, come a cercare di credere in quello che vedeva, singhiozzando e pregando dentro di sé che non andasse via… Era stato lui ad intrappolarla in quel mondo, e provò improvvisa la voglia di maledirlo e di lottare contro la sua presa forte e sicura.
Poi quella parte di sogno svanì e su di lei scesero, pietose, le ombre scure e fitte del sonno…
Dalle scale del Palazzo Municipale, Rudy guardò i superstiti dei Nobili del Regno che si apprestavano a riunirsi in Consiglio. Era il primo pomeriggio, e fredde nuvole erano giunte dall’orizzonte a coprire la luce del giorno, stendendosi come un pesante mantello sulle montagne intorno a Karst, simili ad un triste presagio di morte.
Rudy aveva mangiato e dormito, ma per molto tempo avrebbe ricordato il lavoro compiuto con le Guardie e con i sopravvissuti agli orrori dell’ultima notte, quando avevano ripulito i corpi smembrati e straziati dalla melma intrisa di sangue che tappezzava il pavimento della piazza.
Ora aveva freddo, era stanco, e si sentiva ferito nell’animo. La piazza sembrava essere stata percossa dalla mano vendicativa di una divinità crudele, e dava un’impressione di assoluta desolazione. Sparsi e calpestati giacevano ancora nel fango i resti pietosi della lotta: vestiti, pentole, libri strappati, tutto materiale portato da Gae, e del quale ora i proprietari non avrebbero più saputo cosa farsene.