Gil scosse la testa.
«Se rimanessi,» disse, «sarebbe soltanto una questione di tempo, fino a che non cadessi in qualche combattimento.»
«Si tratta sempre soltanto di una questione di tempo,» rimarcò il Falcone di Ghiaccio. «Ma hai ragione.» Alzò lo sguardo appena un’altra ombra si profilò sotto il tetto basso ricoperto di assicelle.
«Ehi, Gil…» Rudy si gettò sulla balla di paglia accanto al giaciglio della ragazza. «Mi hanno detto che sei stata ferita… Stai bene?»
Gil scrollò le spalle istintivamente, ma il movimento la fece sussultare anche se non avrebbe voluto.
«Sopravviverò…»
Nella penombra, Rudy sembrava trasandato e depresso; la sua giacca dipinta era incrostata di fango e melma bruciacchiata, mentre i capelli erano ugualmente sporchi di sudore. Anche se era riuscito a trovare un rasoio da qualche parte per farsi la barba, il suo aspetto nell’insieme era quello di un uomo scampato a qualche grave sciagura.
E non potrebbe essere diversamente, pensò Gil.
«La riunione del Consiglio è finita», la informò Rudy scrutando il cortile davanti a sé con lo sguardo attento. «Penso che ormai Ingold dovrebbe essere già qui, ed è da molto che gli abbiamo parlato del nostro ritorno…»
Attraverso il cortile un gruppetto di figure emerse dalle ombre che già ricoprivano l’alto cancello della casa: erano Alwir, Govannin di Gae, Janus delle Guardie, ed un omone sfregiato, dall’aria imponente, che forse era Tomec Tirkenson, capo di Gettlesand. Il mantello del Cancelliere ruotò creando una grande macchia rossa contro il grigiore del cielo, e la sua voce possente echeggiò fino alle orecchie dei tre nella baracca.
«… la donna preferirebbe non credere più a nulla piuttosto che lasciare che sia fatto del male al suo bambino. Non sto dicendo che lui avrebbe potuto mettere un altro bambino al posto del Principe se quest’ultimo fosse stato ucciso dai Guerrieri del Buio… ma soltanto che avrebbe potuto farlo facilmente…»
«Per quale scopo?», chiese il Vescovo con quella voce che ricordava le ossa di un animale abbandonate a scolorire sotto il sole del deserto.
Sotto il bianco delle bende pulite, il viso di Janus arrossì vistosamente. Persino da quella distanza Gil riuscì ad afferrare il minaccioso luccichio che stava arrossando gli occhi del Comandante.
Alwir scosse le spalle.
«Quale scopo?», disse, facendo cadere dall’alto la sua risposta. «Ma l’uomo che salva un Principe avrebbe un prestigio sicuramente superiore a quello di chi non fosse stato capace di farlo. In particolare adesso, quando appare chiaro a tutti che la sua Magia comincia ad avere qualche effetto sul Buio. La gratitudine di una Regina può fare molto nello stabilire la posizione di un uomo in un nuovo governo, e Consigliere del Regno è un buon punto di arrivo per un uomo che ha iniziato la sua carriera come schiavo ad Alketch.»
La rabbia infiammò il volto di Janus che si stava accingendo a replicare, ma in quel momento il Falcone di Ghiaccio, che si era allontanato dalla baracca avviandosi speditamente verso il gruppetto, toccò il braccio del suo Comandante, sviandone l’attenzione in una situazione che poteva facilmente esplodere in un attimo.
Parlottarono tutti a bassa voce, e Alwir e Govannin ascoltarono con tranquilla curiosità. Gil scorse la lunga e sottile mano del Falcone di Ghiaccio che si agitava nella sua direzione.
Alwir sollevò le sopracciglia.
«Ritornare?», chiese sorpreso, e la sua voce attraversò l’intero cortile. «Non è questo ciò che mi è stato detto!»
Non c’era certo bisogno di chiedere di chi stessero parlando. Gil rabbrividì per lo spavento, ma gettò via il mantello che la copriva e si alzò in piedi. Attraversò il cortile con aria altera e distaccata, anche se il braccio le pulsava in maniera quasi insopportabile.
Alwir la vide e attese che si avvicinasse, osservandola con un attento sguardo calcolatore che brillava nelle profondità dei suoi occhi color fiordaliso.
«Che cosa ti è stato detto?», chiese Gil.
Le sopracciglia del Cancelliere si inarcarono per la sorpresa. Ma non durò molto: quello sguardo freddo la studiò da capo a piedi — logora, sporca, inzaccherata — confrontandola, senza dare a vederlo, con la sua figura immacolata, ed esprimendo un sardonico rincrescimento per il tipo di gente che Ingold sceglieva come amici.
«Che Ingold non può o non potrà farvi ritornare nel vostro mondo. Certamente ve ne avrà parlato…»
«Che stai dicendo?», esclamò Rudy. Gil si voltò e lo scorse accanto a sé. Senza dubbio si era affrettato a raggiungerla di corsa, perché ansimava leggermente.
Alwir scosse le spalle.
«Chiedetelo a lui. Se è ancora a Karst… Gli arrivi improvvisi e le partenze misteriose sono all’ordine del giorno per lui. Io non l’ho più visto da quando ha lasciato la riunione, ed ormai è passato un bel po’ di tempo.»
«Dov’è?», chiese Gil a bassa voce. Era la prima volta che parlava direttamente con Alwir. Nel corso del loro primo incontro, il Cancelliere l’aveva appena notata, ma c’era una strana sensazione in lei: quasi l’associasse in qualche misteriosa maniera all’arresto di Ingold.
«Ragazza mia, non ne ho la più pallida idea.»
«È sicuramente rimasto qui!», grugnì Tirkenson, gesticolando con la sua mano grande come un badile ed altrettanto sporca verso la stretta fortificazione che dominava il cancello del cortile. «Non ho ancora sentito che abbia lasciato la città.»
Gil si girò su se stessa e si diresse verso la piccola porta che dava sulle scale della casa senza dire una parola.
«Gil-Shalos!»
Il richiamo di Alwir giunse inaspettato. A dispetto di se stessa, la ragazza si sentì costretta a fermarsi, quasi fosse stata colpita dal comando che vibrava in quella voce, e si girò tremando, quasi avesse fatto una lunga corsa.
Il vento agitò il mantello del Cancelliere e rubini color del sangue luccicarono sulle sue dita.
«Senza dubbio avrà delle buone ragioni per ciò che fa. Ne ha sempre ragazza mia, ma guardati da lui. Le sue azioni hanno sempre uno scopo, e uno scopo che è tutto a suo vantaggio…»
Gil incontrò gli occhi di Alwir e fu come se lo vedesse per la prima volta; studiò quelle fattezze quasi a memorizzare l’espressione di quelle labbra taglienti che mostravano chiaramente il suo disprezzo per i sottoposti, e la posizione sporgente della mascella, dalla quale era possibile capire quanta arroganza e quanto spietato egoismo animasse quell’uomo.
Gil si ritrovò a tremare, agitata da una sorda rabbia, mentre le sue mani cercavano quasi per istinto l’elsa ormai familiare di una spada.
«Ogni uomo ha il suo scopo, mio Signore Alwir,» rispose sottovoce. Poi si avviò, ed abbandonò il gruppetto mentre Rudy si affrettava a seguirla.
Alwir li lasciò andar via e li guardò svanire nel buio passaggio della porta. Si era accorto dell’odio che Gil provava per lui, ma non ne rimase scosso: era abituato ad essere detestato dai suoi sudditi. Scosse il capo tristemente, e poi li scacciò dai suoi pensieri.
Né Gil né Rudy pronunciarono una parola mentre si avventuravano lungo i gradini scivolosi della scura scala a spirale. Quell’angusto passaggio li condusse fino ad una stanza, appena più grande di un atrio, situata oltre il cancello stesso; da alcune finestre sagomate a oblò, penetrava una smorta luce bianca filtrata da spessi vetri smerigliati. Il luogo, nato evidentemente come alloggio per un custode, era ora diventato il magazzino provvisorio dei viveri delle Guardie. Lungo le pareti infatti si stendevano pile ordinate di sacchi di farina e di avena, disposti l’uno sull’altro come i sacchi di sabbia degli argini dei fiumi, ed erano alternati a grandi forme di formaggio rosso coperto di cera.
In un angolo, lontano da quelle provviste, su una bassa pila di sacchi, erano state sistemate una coperta ed una stuoia di pelliccia. Un piccolo fagotto contenente un abito pulito, un libro, ed un paio di guanti lavorati a maglia, era avvoltolato ai piedi di quel giaciglio improvvisato. Ingold se ne stava seduto accanto alla finestra che dava a sud, immobile come una pietra. Quella luce chiara lo mostrava come una fotografia in bianco e nero, mettendo in risalto le profonde rughe dell’età e della fatica incise sul suo viso, che partivano dagli occhi fino a raggiungere le tempie.