In quell’istante, dalle profondità del Palazzo, risuonò un tonfo cupo, simile al rimbombo di un gigantesco tamburo, e Gil sentì la vibrazione diffondersi attraverso il marmo del pavimento.
Eldor raddrizzò il capo di scatto e si guardò intorno; la sua bocca si indurì in una smorfia, e la sua mano corse automaticamente verso l’elsa ingioiellata della spada. Ingold invece rimase seduto: sembrava una statua fatta di carne e di ombre.
Un secondo tonfo scosse le fondamenta del Palazzo come fossero state colpite da un gigantesco pugno. Col respiro mozzo, nel chiuso di quella pacifica stanza, tre persone attendevano che giungesse il terzo colpo; un freddo orrore fece drizzare i capelli di Gil filtrando dal silenzio sottostante, segno tangibile e strisciante di un pericolo fin troppo noto.
Ingold ruppe il silenzio.
«Stanotte non verranno,» sentenziò e, nonostante la stanchezza, aveva il tono di chi è certo di ciò che dice. «Vai dalla Regina piuttosto. E confortala!»
Eldor sospirò. Come un uomo sciolto da un incantesimo che lo avesse tenuto legato o pietrificato, il Re scosse le spalle quasi a scacciare i fantasmi della stanchezza e della fatica.
«I capi del Regno s’incontreranno fra un’ora,» si scusò e si stropicciò con forza gli occhi, cercando di scacciare con le dita le macchie scure che li cerchiavano. «Prima però dovrei parlare con le Guardie che stanno fuori delle vecchie arcate, sotto la Prefettura dell’Approvvigionamento… nel caso che non fossero sufficienti i rifornimenti. Poi mi aspetta il Vescovo… dobbiamo decidere dello spostamento delle sue truppe dalla Chiesa alla città… Ma hai ragione: dovrei trovare il tempo per andare a trovarla…»
Eldor riprese a camminare a lunghi passi: non era spinto dalla rabbia o dall’incertezza. Era semplicemente un uomo che tentava di mettere ordine in una massa di pensieri che si accalcavano uno sull’altro, sempre più veloci e pressanti, ed ai quali il suo corpo faticava a tenere testa.
Ingold non si spostò dalla sua sedia intarsiata d’avorio con i piedi dorati e curvati a forma di zoccolo di cervo. La fiamma davanti allo Stregone fluttuò come fosse guidata dalla frenetica vitalità di Eldor.
«Parteciperai al Consiglio?»
«Ho dato tutto l’aiuto e i consigli che potevo,» replicò Ingold. «Penso invece di rimanere qui per tentare di mettermi in contatto con gli altri Stregoni a Quo. Tuo figlio potrebbe non essere la nostra sola risposta… Ci sono delle registrazioni nella Biblioteca di Quo, tradizioni trasmesse da insegnante ad allievo per millenni. Il sapere e la ricerca sono le chiavi ed il cuore della Stregoneria. Tir è ancora piccolo: quando imparerà a parlare, potrebbe essere troppo tardi per poter ascoltare quello che ha da dirci!»
«Potrebbe essere tardi anche adesso…»
La fiamma si chinò al lento chiudersi della porta alle spalle di Eldor.
Ingold rimase seduto ancora un poco dopo che il Re fu uscito, in meditazione, concentrandosi sulla pura, piccola striscia di fuoco. Il bagliore si rifletteva nei suoi occhi ambrati sfiorando le nocche delle sue mani intrecciate e le dita affusolate. Mise in rilievo i segni e le cicatrici di antichi colpi di spada, ed il marchio che ancora spiccava sul polso robusto dello Stregone, traccia evidente di una ferita causata da manette, schiarita dal tempo trascorso.
Lo Stregone si stropicciò gli occhi stancamente, e fissò lo sguardo in direzione della pozza d’ombra, incorniciata dall’intricata filigrana dei pilastri dietro i quali era nascosta Gil.
«Vieni qui,» disse gentilmente, «e parlami di te. Non aver paura.»
«Non ho paura…»
Gil riuscì appena a muovere un passo esitante, e subito la luce della lampada svanì insieme all’immagine dell’intera stanza, nei nebbiosi labirinti del sonno.
La ragazza non raccontò a nessuno di quel terzo sogno: aveva tentato di parlare del secondo con un’amica che l’aveva ascoltata con studiata comprensione senza però credere ad una sola delle sue parole. In verità, neppure lei sapeva trovare una spiegazione a quella sequela di sogni, anche se ormai era quasi certa che non si trattasse di semplici scherzi del subconscio. Quel pensiero la rese inquieta.
Non si stancò di ripetere a se stessa che, non appena fosse trascorso abbastanza tempo, sarebbe riuscita a parlarne con qualcun’altro, liberandosi così da quei ricordi che la turbavano. Per il momento però, preferì serbare i suoi pensieri chiudendoli nel profondo del suo cuore.
Poi, una notte, si alzò, svegliandosi da un sonno profondo.
Non appena gli occhi le si schiarirono, si accorse di trovarsi in un cortile sotterraneo, in quella stessa città, deserta.
Case enormi la circondavano come scogliere scure, e la luce lunare riempiva la piazza proiettando chiaramente la sua ombra sul lastrico sporco e fangoso che si trovava sotto i suoi piedi nudi. Il luogo era deserto, un vero cortile di morti. La spettrale luce argentea cadeva a rischiarare la facciata orientale di un palazzo.
Gil si accorse che le sue grandi porte erano state scardinate, ed ora giacevano al suolo in pezzi sparsi. Da quella soglia vuota, un vento improvviso e sottile iniziò a soffiare, incessante, senza direzione, alzando un turbinio graffiante di foglie morte e di sterpi. La ragazza percepì, al di là delle finestre simili ad orbite vuote, un suono, uno strisciare sordo, quasi che il buio stesso si spostasse attraverso l’ombra, ronzando ciecamente e furiosamente alla ricerca di una via d’uscita.
Deglutì nervosamente; il respiro le diventò affannoso per la paura mentre guardava il cancello arcuato alle sue spalle che dava sulla strada deserta. Anche il cancello però era immerso nell’oscurità, e la ragazza provò una fredda ed irragionevole paura di attraversare le ombre raccolte sotto quell’alta volta.
Il vento aumentò, gelandola. Si diresse allora verso il cancello rabbrividendo: i suoi piedi erano di ghiaccio sul pavimento di marmo. Il silenzio di quella scena era terribile: persino la fuga chiassosa e frenetica del primo sogno sarebbe stata ben accetta. Quella volta era scivolata tra la folla impazzita che non la vedeva, ma non l’aveva lasciata sola. Adesso, terribile e misterioso, un tremendo pericolo incombeva su di lei, nascosto oltre la soglia violentata di quel palazzo. Doveva assolutamente fuggire da lì, perché stavolta non si sarebbe risvegliata: sapeva di essere già sveglia!
Si mosse ma, non appena ebbe girato il capo, ebbe la sottile e angosciosa impressione che qualcosa si muovesse dietro di lei, strisciando sul terreno nelle ombre appena sotto il muro. Proseguì senza voltarsi, ma l’oscurità sembrò seguirla, soffocando nel suo avanzare la luce della luna. Gil iniziò a correre tentando di sfuggire a quell’inseguitore oscuro che la minacciava con la sua presenza immanente eppure visibile. Frammenti di metallo e pietre taglienti ferirono i suoi piedi nudi, ma il dolore fu soffocato da quel senso incombente di terrore ingigantito dal soffio gelido del vento. La ragazza percepì più che vedere qualcosa che si muoveva nell’arco sopra il suo capo. Allora si precipitò come una folle nella strada, ed i suoi piedi insanguinati lasciarono impronte rossastre sui ciottoli che lastricavano la via.
Gil corse. Corse come mai aveva fatto in vita sua: con il fiato spezzato dal panico, attraversò le strade deserte della città, tra le rovine ed i marciapiedi silenziosi dove unici testimoni erano macerie e nude ossa umane. Ad ogni angolo nuove ombre l’attendevano, immobili pareti di oscurità che aumentavano il suo terrore. Sotto ogni cavità e dietro ogni troncone di albero, si nascondevano forme simili a quelle di mostruosi grondoni gotici.
I soli rumori che accompagnavano la sua corsa erano quelli picchiettanti dei suoi piedi nudi, e quello, affannoso, del suo respiro. I soli movimenti erano quelli da lei stessa provocati nella corsa, e quelli della sua ombra mentre, alle sue spalle, il vento e l’oscurità incalzavano scivolando in silenzio, come fumo.