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La ragazza fuggì ciecamente verso le buie caverne delle vie, con i piedi e le gambe insensibili, inciampando senza sapere in cosa: la guidava un istinto, la consapevolezza inconscia che l’unica sua salvezza era costituita dal Palazzo. Lì avrebbe trovato Ingold, e lo Stregone l’avrebbe protetta e salvata!

Corse finché si svegliò.

Si aggrappò singhiozzando al cuscino inzuppato del sudore gelido del suo stesso terrore, con il corpo che le doleva, ogni muscolo provato dalla tensione e dalla paura.

Soltanto con gradualità riuscì a capire dove si trovasse, e la dolce luce lunare le mostrò gli oggetti familiari di Clarice Street fino a quel momento lontana dai suoi occhi spauriti, spersi nel confine tra due mondi.

Con un supremo sforzo di volontà, si strappò al sonno obbligandosi a pensare. Provava dolori lancinanti alle gambe, ed i suoi piedi erano addirittura di ghiaccio sotto le coperte. Cercò di fare ordine in tutta quella confusione di pensieri tentando di trovare uno sbocco razionale alle sue impressioni.

Questo è perché ho sognato di avere i piedi freddi, pensò, quindi ora non posso che avere i piedi freddi…

Con dita tremanti cercò a tentoni la lampada, l’accese, e rimase lì tremante ripetendosi l’ormai disperata, incredula, solita litania:

«È stato un sogno. Soltanto un sogno. Dio, per favore, fa che sia stato solamente un sogno…»

Nonostante continuasse a sussurrarlo non poté però liberarsi della sensazione umida ed appiccicaticcia che provava alle piante dei piedi. Si piegò su se stessa rannicchiandosi per riscaldarli, ma la vista delle dita delle sue mani macchiate di sangue, le richiamò bruscamente alla memoria il luogo nel quale si era tagliata sulle pietre frantumate, appena oltre il cancello…

Cinque notti dopo, c’era la luna piena.

La sua luce svegliò Gil d’improvviso facendola emergere dal sonno con un sobbalzo, una convulsione di paura. Poi, lentamente, la ragazza riconobbe le forme familiari — silenziose nel buio — che riempivano la sua casa, e capì che non era successo nulla: si trovava ancora nell’appartamento di Clarke Street!

Rimase immobile, al buio, sdraiata in attesa che qualcosa o qualcuno la riportasse indietro, senza alcuna possibilità di scampo, in quel mondo di incubi e paure. La luce chiara della luna si rifletteva sulla coperta accanto a lei, palpabile come un foglio di carta.

«Ho dimenticato di sprangare la porta», pensò tra sé la ragazza.

Si trattava più che altro di una formalità: l’appartamento aveva una serratura robusta, e il suo vicino era una persona tranquilla. Si trattava di una sorta di rito notturno che la ragazza compiva sempre.

Decise di non pensarci e di ritornare a dormire, ma non ci riuscì. Dopo un minuto si trascinò fuori dal letto, rabbrividendo per il freddo, e raccolse dal pavimento il suo kimono decorato con la figura di un grande pavone. Se lo infilò e si diresse silenziosamente verso la cucina. Trovò facilmente la strada al buio; tastando il muro, raggiunse l’interruttore della luce e l’accese:

Lo Stregone Ingold era seduto al tavolo della sua cucina!

Il primo pensiero di Gil fu quello di considerare, in maniera del tutto automatica, che quella era la prima volta che lo vedeva alla luce del suo mondo. Lo Stregone sembrava più vecchio, più affaticato; il suo semplice abito bianco e marrone appariva consumato, macchiato, logoro; ma il suo aspetto era sempre lo stesso, quello di un vecchio gentiluomo, l’uomo che Gil aveva sempre visto nei suoi sogni. Era il Consigliere del Re, lo Stregone che, come ricordava Gil, era avanzato verso l’Oscurità per affrontarla, mentre la lama della sua spada lampeggiava rossastra contro il buio!

È stupido, pensò, pazzesco…

E non tanto perché lo avesse incontrato di nuovo, ma per le circostanze di quell’incontro, lì, nella linda cucina del suo appartamento.

Che diavolo ci fa qui?, mormorò la ragazza dentro di sé. Se era veramente un sogno… ma Gil sapeva che non lo era.

Si guardò intorno automaticamente e scorse i piatti della sera prima ammonticchiati, ancora sporchi nel lavello. Anche il piano del tavolo era coperto da uno strato di bucce di mela, indici di libri, tazze di caffé, e fogli di carta scarabocchiati. Due vecchie magliette erano appese alla spalliera di una seggiola, una addirittura sulla stessa sedia dove sedeva tranquillo Ingold. L’antiquato orologio elettrico dietro la sua testa segnava le tre del mattino. La ragazza provò un senso di scoramento scorgendo la scena: era tutto troppo squallidamente vero per non sembrare triste e grigio, e lei, questa volta, non stava né dormendo né sognando.

«Cosa fai qui?», chiese.

Lo Stregone alzò le sopracciglia aggrottandole per la sorpresa.

«Sono venuto a parlarti», replicò.

La ragazza riconobbe immediatamente la voce e capì di averla conosciuta da sempre.

«Voglio dire: come hai fatto ad arrivare qui?»

«Potrei anche darti una spiegazione tecnica», rispose lo Stregone, ed il sorriso che illuminò per un attimo il suo viso lo fece sembrare molto giovane. «Ma che importanza ha? Ti basti sapere che ho attraversato il Vuoto per trovarti. Ho bisogno del tuo aiuto!»

«Hunhh…»

Il gemito che uscì dalla gola di Gil non era certo il genere di risposta che la ragazza avrebbe voluto dare, e nemmeno si adattava alle sue conoscenze sugli Stregoni.

«Non sarei venuto a disturbarti,» aggiunse gentilmente Ingold, «se non avessi dovuto trovarti ad ogni costo.»

«Non… non capisco,» borbottò Gil, poi si sedette pesantemente davanti all’uomo e, per farlo, fu costretta a liberare la sedia da due libri e da una pagina del calendario del Times, ma non riuscì a trattenere uno slancio di ospitalità anche se le sembrò un po’ assurdo.

«Vuoi una birra?»

«Grazie,» rispose Ingold e, dopo che la ragazza gli ebbe porto una lattina, ci armeggiò un poco intorno leggendo le istruzioni per aprirla sulla parte superiore: per essere la prima volta, se la cavò egregiamente.

«Come facevi a vedermi?», gli chiese Gil, mentre lo Stregone si scuoteva la schiuma dalle dita. «Anche quando era un sogno, anche quando nessun altro poteva, né Re Eldor, né le Guardie al Cancello, tu ci riuscivi. Come mai?»

«È perché ho familiarità con la natura del Vuoto,» disse in tono serio lo Stregone. Intrecciò quindi le mani sul tavolo accarezzando pigramente con le dita affusolate l’alluminio lucido della lattina di birra come se stesso memorizzandone la forma con il semplice aiuto del tatto.

«Avrai sentito dire che esiste un numero infinito di Universi paralleli, tutti intrappolati e conservati nella matrice del Vuoto. Nel mio mondo, nel mio tempo, sono l’unico che riesca a comprendere la reale essenza del Vuoto… uno dei pochi che possono persino mettere in discussione la sua esistenza…»

«Come hai fatto a conoscere queste cose, allora? Come hai fatto ad attraversarlo, se nessun altro nel tuo mondo le conosce?», chiese Gil incuriosita.

Lo Stregone sorrise di nuovo.

«Questa, Gil, è una storia che, per raccontarla, ci vorrebbe l’intera notte. Ti basti sapere che io sono il solo uomo nell’arco di cinquecento anni che sia stato capace di attraversare la barriera che separa il mio universo dal tuo e, avendolo fatto, sono stato capace di riconoscere l’impronta dei tuoi pensieri e della tua personalità. Sappi che questi sono stati attirati verso il Vuoto da una massiccia vibrazione di panico e di terrore che è risuonata in tutto il mio mondo. Credo invece che ci siano pochissime persone nel tuo universo che abbiano sentito attraverso la Barriera — per qualsiasi ragione psichica, fisica, o per pura coincidenza — l’avvicinarsi del Buio! Tra tutte, tu sei l’unica con la quale sia riuscito a stabilire un contatto. L’averti visto, parlato, e poi l’averti materializzato, non solo con il pensiero, ma in carne e ossa, mi ha fatto comprendere cosa stesse accadendo al Vuoto.»