Gil emise un grido di indignazione, ma Ingold sorrise.
«Lo ricordo», rispose. «Ho desiderato per tutta la vita di essere immortalato in una Ballata, ma i versi che avevo scritto erano così caustici che forse è meglio se ne perda il ricordo.»
«E,» aggiunse cinicamente il Capitano, «i suoi autori sono certamente morti!»
Ingold sospirò.
«Preferirei che fossero vivi per prendermi ancora in giro, per ogni giorno della mia vita… Trascorreremo la notte qui. Puoi darci da mangiare?»
Il Capitano annuì.
«Certo, abbiamo del bestiame…» Si girò indicando le palizzate di alcuni recinti sparsi oltre la collina dove un branco di cavalli e mezza dozzina di mucche da latte stavano abbeverandosi fissando i nuovi arrivati con occhi dolci e stupidi. «Abbiamo anche una distilleria nel bosco. Alcuni dei miei uomini riescono a fare dell’ottima birra — la Blue Ruin — dalla corteccia d’albero e dalle patate.»
Ingold rabbrividì.
«A volte capisco l’orrore di Alwir per i cosiddetti agi del vivere civile.»
Poi si avviò dietro la Capitana seguendola sugli scalini logori dell’entrata.
«Comunque,» aggiunse ancora la donna non appena gli altri soldati della guarnigione si furono riuniti dietro di loro, «abbiamo la legge del Torrione qui!»
Ingold annuì.
«Capisco.»
Entrarono, e Gil rimase senza parole. Dal di fuori la rocca aveva esercitato un certo potere intimidatorio, ma dentro era diroccata, spaventosa, buia, incredibilmente grande. I passi delle Guardie echeggiavano nella sala cupa e gigantesca come il rumore di un ruscello che si perde in lontananza. Le luci delle loro torce rimpicciolirono poco a poco sino a diventare tenui come le fiammelle di candela.
L’architettura interna era mostruosa: una mescolanza di superfici piane che nulla aveva in comune con la sobrietà gotica di Karst. Niente a che fare comùnque con il genere umano: la tecnologia che aveva creato quel posto era chiaramente al di là di qualsiasi cosa che appartenesse a questo mondo.
O al mio…, pensò Gil.
La ragazza rimase affascinata dall’enormità della sala centrale dove le fiamme ballonzolanti delle torce si riflettevano nell’oscurità immobile dei canali colmi d’acqua che solcavano il pavimento. Rabbrividì per il freddo, il vuoto e la vastità di quel luogo.
«Come fu costruito il Torrione?», sussurrò. La stanza amplificò la sua voce e portò le parole in ogni angolo. «Sarebbe stata una vergogna se i posteri non avessero potuto ammirare l’opera del suo architetto e dei Re che lo vollero costruire…»
«È vero», rispose Ingold e anche la sua voce echeggiò nelle volte invisibili del soffitto. «Ma la memoria non è una scelta… non sappiamo cosa la governi e come…»
Si mosse come un’ombra accanto a Gil seguendo la strada indicata dalle torce che la distanza rimpiccioliva. Guardandosi attorno, la ragazza si accorse — non appena giunse in un luogo più illuminato — che le pareti avevano una curiosa struttura a nido d’ape, con piccole porte buie che si susseguivano, ed erano unite, a volte da balconi di pietra, a volte da passerelle traballanti che striavano la parete come ragnatele di ragni ubriachi. Quelle piccole entrate scure davano accesso ad un’infinità di celle, scale e corridoi, la cui sinuosità oscura ricordava quella di un mostruoso labirinto.
«Per quanto riguarda come fu costruito, Lohiro di Quo, il Capo del Consiglio dei Maghi, ha fatto uno studio sulla tecnica di quel tempo grazie ad alcune registrazioni che sono giunte fino a noi. Stando a quelle carte, le pareti sono state erette per mezzo dalla Magia e di congegni meccanici. Gli uomini d’allora possedevano abilità superiori alle nostre. Noi non riusciremmo mai a creare una costruzione simile!»
Attraversarono uno stretto ponte che passava sopra uno dei tanti canali che portava l’acqua da una vasca all’altra per tutta la lunghezza della sala. Gil si fermò un attimo sul ponte senza balaustra a guardare l’acqua che scorreva rapida.
«Fu per questo che fece quello studio?», chiese dolcemente. «Perché sapeva che quella tecnica avrebbe potuto tornare ancora utile?»
Ingold scosse la testa.
«Oh no, è accaduto molto tempo fa. Come tutti i Maghi, Lohiro cerca di capire per se stesso, per sua soddisfazione. Qualche volta penso che la Magia sia soltanto una brama di conoscenza portata all’eccesso, un bisogno profondo di capire, comprendere le leggi che regolano il mondo, l’universo. Tutto il resto, l’illusione, la creazione di forme, l’abilità nel dominare le menti e le cose, il salvare, cambiare o distruggere, è del tutto casuale, e viene dopo il desiderio principale.»
«Il problema è questo», brontolò Ingold più tardi dopo aver consumato una magra cena in compagnia delle Guardie e dopo aver sistemato le loro poche cose in una cella accanto a quelle che ospitavano la guarnigione. «Posso cercare soltanto ciò che conosco. È del tutto inutile mettersi alla ricerca, in questo momento, di qualcosa che ignoriamo completamente!»
Poi guardò Gil, e gli sprazzi di luce emanati dal suo cristallo si diffusero come piccole stelle sul suo volto coperto di cicatrici.
Avevano acceso un piccolo fuoco per riscaldare la cella e Gil si accorse, con sorpresa, che non c’era fumo nella stanza.
Probabilmente, pensò la ragazza, questo luogo deve avere un eccezionale sistema di ventilazione… e il suo rispetto per gli antichi costruttori aumentò.
Ingold era tornato a fissare il cristallo. Gil, rinvigorita dal calore e, soprattutto, dal cibo, si era seduta in un angolo e affilava metodicamente il suo pugnale seguendo puntigliosamente le istruzioni impartitele dal Falcone di Ghiaccio.
In un primo momento, quando aveva incontrato Ingold, aveva pensato di conoscerlo da sempre; ora, mentre continuava l’opera di affilatura, era quasi impossibile pensare al fatto che non sapeva nulla di lui. Sollevò la lama per esaminarla alla luce e la saggiò con il pollice.
Era un mondo duro quello nel quale era stata precipitata, e che non perdonava gli errori. Ma, per quanta fatica avesse sopportato, per tutte le paure che aveva dovuto combattere, per tutto il peso e il dolore — si toccò soprappensiero la cicatrice sul braccio sinistro — c’erano però altrettante gioie. La stessa presenza di Ingold la rassicurava, e non le faceva avvertire assolutamente il distacco della sua terra e la sua condizione di esiliata.
Presto però lui sarebbe andato via. A lei sarebbero toccate lunghe settimane in quel luogo, mentre il Mago avrebbe continuato la sua ricerca solitaria tra le pianure di Quo, tentando di contattare i Maghi, la sua gente, l’unico gruppo di persone con le quali aveva un’intesa perfetta.
Cosa troverà lì? si chiese. E riuscirà mai a ritornare?
Lo farà!, si disse, osservando il profilo immobile del vecchio con gli occhi socchiusi nella luce magica del cristallo. È robusto come un vecchio stivale e scivoloso come un serpente. Tornerà sano e salvo e porterà con se gli altri Maghi…
La ragazza spostò un po’ la fibbia del mantello imbottito e se lo sistemò dietro le spalle doloranti. Dopo il viaggio della notte precedente, persino un falò sulla strada sarebbe stato il benvenuto: quella cella nella quale si poteva a malapena stare in piedi sembrava addirittura un angolo di Paradiso.
Il luogo, visto con occhi meno affaticati, sarebbe apparso squallido. L’oro caldo del fuoco splendeva e si rifletteva nelle crepe delle pareti mal intonacate; il pavimento era gibboso e pieno di fessure ed irregolarità. C’era una patina di macchie di fuliggine dappertutto: rivelava le centinaia di generazioni che si erano spartite quel rifugio, ed i millenni di incuria.