Выбрать главу

«Certo che potrei!». Le sue mani strinsero più forte la chiave, mentre il sudore gli copriva la fronte. Sapeva che non avrebbero dovuto rinunciare al bluff, che alla fine avrebbe ceduto, visto che avevano già ceduto una volta… Quando? Quando quella scena si era svolta la prima volta. La prima? Ewing sentì un brivido freddo d’inquietudine.

Myreck, distrutto, fece segno di sì con la testa. «Molto bene. Faremo ciò che lei chiede. Non abbiamo scelta». Il suo viso esprimeva l’emozione più vicina al disprezzo che gli era possibile: una sorta di sdegno lontano, pacato. «Se vuole salire sulla piattaforma…».

Ewing rimise giù la chiave inglese, salì sulla piattaforma con atteggiamento sospettoso. Avvertiva attorno e sopra a sé la massa opprimente della macchina. Myreck regolò con aria affranta i comandi di un pannello al di fuori della sua visuale. Gli altri terrestri, spaventati, si raggrupparono per osservare ciò che stava succedendo.

«E poi, come faccio a tornare a quartodì?», chiese improvvisamente Ewing.

Myreck scrollò le spalle. «Procedendo nel flusso normale del tempo, secondo per secondo. Non abbiamo modo di farla tornare a questo momento e luogo a velocità accelerata». Lo fissò con occhi imploranti. «La prego, non mi costringa a farlo. Non abbiamo ancora studiato a fondo la logica dei viaggi nel tempo. Non sappiamo…».

«Non si preoccupi. Tornerò. Prima o poi, in un modo o nell’altro».

Sorrise, fingendo una tranquillità che non provava. Stava per mettere piede nel più tenebroso dei regni: il passato. Lo sosteneva un’idea confortante: rischiando tutto, forse sarebbe riuscito a salvare Corwin. Rischiando nulla, avrebbe perso tutto.

Aspettò. Capì che stava aspettando un’esplosione d’energia, il lampo improvviso di una forza sovrannaturale che lo scagliasse all’indietro lungo la matrice del tempo, ma nessuno di quei fenomeni si verificò. Ci fu solo il mormorio dolce della voce di Myreck che recitava equazioni e ogni tanto aggiustava i comandi del pannello di controllo; poi lo udì dire: «Sono pronto», e la mano del terrestre si tese verso l’ultimo pulsante.

«Probabilmente si verificherà anche un piccolo spostamento spaziale», stava dicendo Myreck. «Spero per il bene di tutti che lei emerga all’aperto, e non…».

La frase non venne mai terminata. Ewing non provò la minima sensazione, ma il laboratorio e il gruppo di terrestri intimoriti svanirono, come spazzati via dalla mano del cosmo, e lui si trovò sospeso a una trentina di centimetri dal suolo sopra un grande prato, in un pomeriggio caldo, luminoso.

Restò in aria solo un attimo. Poi precipitò pesantemente a terra, finì carponi. Si rialzò immediatamente. Sentì una fitta improvvisa al ginocchio. Guardò sull’erba, e vide che era finito su un sasso, si era spelato.

Vicino a lui, un bambino rise. Una voce stridula disse: «Guarda quel signore che fa i salti mortali!».

«Una frase molto poco cortese», ribatté una voce piatta, metallica. «Non è buona educazione richiamare l’attenzione sugli altri, nemmeno se si comportano in modo eccentrico».

Ewing si girò. Una robogovernante molto imponente stava riprendendo un bambino sugli otto anni. «Ma da dove è spuntato?», insisté il piccolo. «È saltato fuori all’improvviso dall’aria! Non hai visto?».

«La mia attenzione era altrove. Comunque la gente non cade dal cielo. Non al giorno d’oggi, non nella città di Valloin».

Ridacchiando fra sé, Ewing s’allontanò. Se non altro, ed era un piacere, aveva scoperto di trovarsi ancora a Valloin. Chissà se il bambino avrebbe continuato a fare domande sull’uomo caduto dall’aria. A quanto sembrava, la governante non possedeva il circuito dell’umorismo. Povero bambino.

Era in un parco, quello era ovvio. In lontananza vide un campo giochi, e qualcosa che poteva essere un giardino zoologico. C’erano anche delle cabine per la vendita di bibite e generi affini. Raggiunse la cabina più vicina, dove un uomo giovane stava acquistando per il bambino che aveva a fianco un palloncino da un robovenditore.

«Chiedo scusa», gli disse. «Non conosco Valloin, e temo di essermi perso».

Il terrestre aveva capelli d’un rosso fiammante, che dovevano essere stati trattati con sostanze chimiche per renderli ancora più rossi. Diede una moneta al robot, prese il palloncino, lo passò al bambino, poi sorrise con estrema cortesia a Ewing. «Posso esserle utile?».

Ewing rispose al sorriso. «Sono uscito a fare una passeggiata, e ho paura di aver perso l’orientamento. Vorrei tornare al consolato siriano. Vivo lì»,

Il terrestre lo fissò a bocca spalancata per un attimo, prima di riprendere il controllo. «Ha camminato dal consolato siriano fino al parco municipale di Valloin?».

Ewing capì di aver commesso un errore madornale. Rosso in viso, cercò di rimediare. «No… No, non esattamente. Ho percorso un certo tratto in taxi. Ma non ricordo da che parte sono arrivato, e… Ecco…».

«Potrebbe tornare in taxi, non le sembra?», gli suggerì l’altro. «Certo, da qui è una bella spesa. Se vuole, prenda l’autobus numero sessanta fino al Grande Cerchio, scenda lì e salga sulla sotterranea. La linea ovale la porterà fino al consolato, se cambia alla stazione della trecentosettantottesima strada».

Ewing aspettò pazientemente che il flusso delle informazioni finisse. Poi disse: «D’accordo, prenderò l’autobus. Le sarebbe di troppo disturbo mostrarmi dov’è la fermata?».

«Sull’altro lato del parco, vicino alla grande entrata quadrata».

Ewing scrutò in lontananza. «Temo di non vederla. Le dispiacerebbe accompagnarmi per un tratto? Mi creda, non vorrei importunarla eccessivamente…».

«Non mi dà nessun disturbo».

Si allontanarono dalla cabina, si misero ad attraversare il parco. A metà strada dall’entrata principale, il terrestre si fermò, puntò l’indice. «Là. Vede? Non può sbagliarsi».

Ewing annuì. «C’è un’ultima cosa…».

«Dica pure».

«Stamattina, nel corso di uno spiacevole incidente, ho perso tutto il mio denaro. Mi hanno rubato il portafoglio. Potrebbe prestarmi un centinaio di crediti?».

«Un centinaio di crediti! Stia a sentire, amico. Un conto è dare qualche informazioni, ma cento crediti… Non se ne parla nemmeno! E poi, arrivare fino al consolato non le costerà più di un credito e ottanta».

«Lo so», rispose Ewing, duro. «Però mi servono i cento crediti». Puntò un dito sotto la stoffa della tasca dei calzoni e disse: «Guardi che ho in tasca uno storditore, e il dito è già sul grilletto. O se ne sta buono e mi dà cento crediti in biglietti di piccolo taglio, oppure sarò costretto a usare la pistola. Anche se l’idea mi ripugna».

Il terrestre sembrava sull’orlo delle lacrime. Lanciò un’occhiata al bambino col palloncino, che giocava tranquillamente a pochi metri da loro, poi girò di nuovo la testa a fissare Ewing. Senza una parola estrasse il portafoglio e si mise a contare i crediti. Ewing li accettò in silenzio, li ripose nella tasca dove teneva il portafoglio prima che Firnik glielo confiscasse.

«Mi spiace moltissimo di dover fare una cosa del genere», disse all’uomo. «Però non ho tempo di fermarmi a spiegarle, e il denaro mi serve. Adesso voglio che lei prenda il bambino per mano e s’incammini lentamente verso quel laghetto, senza voltare la testa e senza chiedere aiuto. Lo sa che lo storditore ha un raggio d’azione di quasi centocinquanta metri?».

«Aiuta uno sconosciuto, ed ecco cosa ti succede», borbottò il terrestre. «Una rapina in piena luce, al parco municipale!».

«Forza. Si spicci!».

L’uomo s’allontanò. Ewing restò a guardarlo per un po’, finché fu sicuro che gli avrebbe obbedito, poi si girò e raggiunse in fretta l’uscita. Proprio in quel momento spuntò da dietro l’angolo il muso arrotondato dell’autobus numero sessanta. Con un sorriso, Ewing balzò a bordo. Un robot immobile accanto alla porta gli chiese: «Destinazione, prego?».