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«Il Grande Cerchio».

«Zero e sessanta, prego».

Ewing tolse di tasca un biglietto da un credito, lo inserì nella fessura e aspettò. Tintinnò un campanello. Uscì il biglietto, e subito dopo quattro monetine color rame scesero dalla scanalatura del resto. Le prese, avanzò sull’autobus. Dal finestrino guardò il parco. Vide il palloncino rosso del bambino, e al suo fianco l’uomo coi capelli rossissimi, che fissava il lago girando le spalle alla strada. Probabilmente è mezzo morto di paura, pensò. Il rimorso per ciò che aveva fatto fu solo momentaneo. Il denaro gli serviva. Firnik aveva rubato tutti i suoi soldi, e l’uomo che lo aveva salvato si era inspiegabilmente dimenticato di lasciargli qualcosa.

Il Grande Cerchio era proprio un grande cerchio: un’enorme strada circolare, ad anello, da cui si dipartivano più di quindici altre strade a raggiera. Al centro della ruota, su un fazzoletto d’erba, si ergeva un monumento che rappresentava chissà chi.

Ewing scese dall’autobus. Individuò un robovigile e gli chiese: «Dov’è l’ingresso per la sotterranea?».

Il robot gli diede le indicazioni per raggiungere la stazione. Prese uno dei tubi mobili, cambiò alla trecentosettantottesima strada, come gli aveva consigliato lo sfortunato terrestre, e quando riemerse si trovò nel bel mezzo di un affollato centro commerciale.

Pensoso, si fermò un attimo sotto una galleria, cercando di ricordare cosa gli servisse. Una maschera d’intimità e uno storditore, e nient’altro, se non sbagliava.

L’insegna di un’armeria non molto lontana attrasse la sua attenzione. La raggiunse: il negozio era aperto. Oltrepassò la barriera d’energia che fungeva da porta. Il proprietario era un terrestre minuscolo, tutto curvo, che gli sorrise umilmente vedendolo entrare.

«Posso esserle utile, signore?».

«Certo. Vorrei acquistare uno storditore, se il prezzo non è troppo alto».

L’uomo fece una smorfia. «Non so se ho ancora in casa storditori. Mi faccia pensare… Ah, sì!». Si chinò sotto il banco e tirò fuori una scatola di plastite blu scuro. Sfiorò il coperchio, e la scatola si aprì. «Ecco qua, signore. Un modello delizioso. Solo otto crediti».

Ewing si fece dare l’arma, la studiò. Era stranamente leggera. L’aprì, e fu sorpreso di scoprire che l’interno era completamente vuoto. Guardò l’altro con rabbia. «Sta scherzando? Dove sono finiti tutti i meccanismi?».

«Oh, lei vuole una pistola vera, signore? Credevo che le interessasse solo un oggetto ornamentale da abbinare al suo bel vestito. Però…».

«Lasciamo andare. Ha armi che funzionano sul serio?».

L’uomo era pallido, quasi si sentisse male. Ma scomparve nella stanza sul retro, e un attimo dopo riemerse tenendo in mano una piccola pistola. «Ne ho una, signore. Il mese scorso me l’ha ordinata un mio cliente siriano, che sfortunatamente è morto. Avevo intenzione di restituirla, ma se le interessa è sua per novanta crediti».

Novanta crediti erano quasi tutto quello che aveva. E voleva salvare un po’ di soldi per passarli all’uomo che avrebbe salvato.

«Sessanta bastano».

«Signore! Non…».

«Accetti sessanta crediti», disse Ewing. «Sono un amico personale del vice console Firnik. Chieda a lui di pagarle la differenza».

Il terrestre lo scrutò, cupo, e sospirò. «Vada per i sessanta. Gliela devo incartare?».

«Non importa». Ewing s’infilò in tasca la piccola arma, ancora chiusa nella scatola, e contò sessanta crediti dal mazzo di banconote che aveva. Restava un’ultima cosa. «Ha maschere d’intimità?».

«Certo, signore. Un vasto assortimento».

«Bene. Me ne dia una dorata».

Con mani tremanti, l’uomo gli porse una maschera color oro. Era proprio come la ricordava. «Quanto?».

«D… Dieci crediti, signore. Per lei, otto».

«Facciamo pure dieci», disse Ewing. Prese la maschera, sorrise astutamente al terrificato negoziante, uscì. Giunto in strada, alzò gli occhi sul grande orologio in cima a un edificio. Erano le 15 e 52.

D’improvviso, irritato, si diede un colpo sulla fronte con la mano: aveva dimenticato di controllare il fatto più importante! Tornò di corsa nell’armeria. L’uomo scattò sull’attenti. Gli tremavano le labbra. «S… Sì?».

«Voglio solo un’informazione. Che giorno è oggi?».

«Che giorno? Be’… Be’, secondodì, naturalmente. Secondodì undici».

Ewing si sentì trionfante. Era proprio secondodì! Uscì dal negozio una seconda volta, afferrò un passante per il braccio. «Mi scusi, può dirmi dove si trova il consolato siriano?».

«Due isolati più a nord, poi volti a sinistra. È un edificio imponente, non può sbagliarsi».

«Grazie».

Due isolati verso nord, poi svoltare a sinistra. Un’ondata di eccitazione gli sommerse il cuore.

S’incamminò decisamente verso il consolato siriano, le mani in tasca. Una era chiusa sul calcio freddo dello storditore, l’altra stringeva un lembo della maschera.

11

Al consolato, dovette farsi strada tra una folla piuttosto fitta. Erano tutti siriani, impegnati in chissà quali occupazioni. Nonostante ciò che già sapeva, era sorprendente vedere quanti siriani si trovassero a Valloin.

Il consolato era un edificio di dimensioni imponenti. Doveva essere stato eretto di recente, perché la sua architettura era in netto contrasto con tutto ciò che lo circondava. Piani inclinati e facciate che s’intersecavano lo rendevano uno spettacolo insolito, bizzarro.

Traversò l’enorme atrio, svoltò a sinistra, verso una scala che scendeva in basso. Non stette a riflettere su come raggiungere la prigione sotterranea dove, in quel momento, un’altra versione di se stesso stava subendo l’interrogatorio. Sapeva di essere già stato salvato una volta, quindi era possibile ripetere l’impresa.

Continuò a scendere finché un sergente, di guardia sull’ultimo pianerottolo, non gli chiese: «Dove va?».

«Devo scendere ancora. Ho bisogno di vedere il vice console Firnik per una questione urgente».

«Firnik è in riunione. Ha lasciato ordine di non essere disturbato».

«Tutto a posto. Ho un permesso speciale. So che sta interrogando un prigioniero con Byra Clork, il sergente Drayl e il tenente Thirsk. Devo portargli informazioni di importanza vitale, e se lei mi blocca qui, se non mi permette di parlargli, le giuro che le faccio fare una brutta fine».

Il sergente era dubbioso. «Insomma…».

«Senta, perché non scende a conferire col suo superiore immediato, se non vuole prendersi lei la responsabilità? Io l’aspetto qui».

Il sergente sorrise, lieto di veder sollevare dalle proprie spalle, per quanto robuste, l’onere di una decisione. «Non se ne vada», gli disse. «Torno subito».

«Non tema».

Il sergente si voltò, s’incamminò. Ewing gli lasciò fare tre passi, poi tolse di tasca lo storditore e lo regolò sull’intensità minima. L’arma era grande quanto il suo palmo, fatta di una plastica blu trasparente. All’interno si potevano scorgere i complicati meccanismi che conteneva. Ewing mirò e sparò. Il sergente si immobilizzò.

Ewing corse giù, lo afferrò alle ascelle, lo riportò nel punto in cui si trovava, lo sistemò in modo che sembrasse a guardia della scala. Poi ricominciò a scendere, diretto al piano successivo.

Incontrò un’altra guardia, coi gradi di tenente. Gli disse in fretta: «Mi manda il sergente. Ha detto che qui avrei trovato il vice console. Ho un messaggio urgente per lui».

«Segua il corridoio. La seconda porta a sinistra», gli rispose l’altro.