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Qualunque cosa desiderasse effettivamente, pensò lui.

Il pomeriggio scivolò via. A un certo punto, Myreck disse lentamente: «Abbiamo compiuto anche molte ricerche nel campo della teoria temporale. Le nostre macchine si trovano ai piani inferiori dell’edificio. Se le interessa…».

«No!», rispose Ewing, così all’improvviso e con tanta furia che la sua esclamazione parve quasi un grido. In tono più calmo aggiunse: «No, grazie. Temo di dover rinunciare. Si sta facendo tardi, e sono sicuro che troverei così affascinanti le macchine del tempo da fermarmi qui più del dovuto».

«Ma noi saremo felicissimi di vederla restare con noi il più a lungo possibile», ribatté Myreck. «Se vuole vedere le macchine…».

«No», ripeté Ewing, deciso. «Ormai debbo andarmene».

«In questo caso, la riporteremo all’hotel».

Dev’essere questo il punto di divergenza, pensò mentre i terrestri lo accompagnavano alla porta ed eseguivano l’operazione che li riportava in fase temporale col mondo esterno, con la sera di quartodì tredici. Il mio predecessore non è mai uscito di qui. È tornato a secondodì pomeriggio, sdoppiandosi. Il ciclo è interrotto.

Entrò in macchina. L’auto partì subito. Ewing si voltò a guardare lo spazio vuoto alle loro spalle che in realtà non era vuoto.

«Un giorno o l’altro deve vedere le nostre macchine», disse Myreck.

«Sì… Sì, certo», rispose vagamente Ewing. «Appena avrò sistemato qualche faccenda urgente».

Ma domani sarò in viaggio verso Corwin, pensò. Probabilmente non vedrò mai le vostre macchine.

Con le sue azioni di quel pomeriggio aveva creato una nuova successione d’eventi. Non era tornato a secondodì, non aveva salvato il prigioniero di Firnik; quindi, un Ewing-sub-tre aveva subito la tortura della sonda mentale e, presumibilmente, era morto due giorni prima. Di conseguenza, senza dubbio Firnik pensava che Ewing fosse morto. Chissà che sorpresa per lui, l’indomani, quando uno spettro si sarebbe presentato allo spazioporto a reclamare la sua nave e a partire per Corwin!

Cercò disperatamente di capire i lati più complessi della situazione. Be’, ormai non importava più. Aveva già fatto il passo decisivo.

Nel bene o nel male, il continuum temporale si era alterato.

13

Ewing se ne andò dal Grand Valloin Hotel il pomeriggio successivo. Per fortuna la direzione gli aveva offerto una settimana di soggiorno gratuito; altrimenti, grazie a Firnik, non sarebbe mai riuscito a saldare il conto. Possedeva solo dieci crediti, dono del suo salvatore fantasma, ormai morto. Il conto ammontava a più di cento.

L’impiegato robot lo fissò con fredda cortesia. Ewing firmò i moduli che dichiaravano interrotti i suoi rapporti con l’hotel, che liberavano la direzione da ogni responsabilità per oggetti eventualmente sottratti, e che annunciavano la sua intenzione di lasciare Valloin. «Spero che lei abbia gradito il soggiorno nel nostro hotel», gli disse la voce metallica del robot quando ebbe terminato di firmare.

Ewing lanciò un’occhiata ironica alla macchina e rispose: «Oh, sì. Moltissimo. Moltissimo, credimi». Fece scivolare il fascio di moduli sul ripiano in marmo del banco e accettò la ricevuta. «Pensate voi a trasferire i miei bagagli allo spazioporto?», chiese.

«Certo, signore. Il servizio è compreso nel prezzo».

«Grazie».

Traversò l’atrio sontuoso, oltrepassò la fontana luminosa, le rilassopoltrone, la zona ancora lievemente danneggiata dove sorgeva l’energitron. I robot stavano ridipingendo e ricoprendo di plastica tutto. La cabina sembrava quasi nuova. Entro sera, non sarebbe rimasto un solo indizio a lasciar capire che appena tre giorni prima lì s’era ucciso un uomo.

Prima di raggiungere la strada incontrò parecchi siriani, ma riuscì lo stesso a sentirsi stranamente calmo. Per quanto ne sapeva Rollun Firnik e i suoi, Baird Ewing, l’ambasciatore di Corwin, era morto sotto le loro torture secondodì scorso. Se c’era qualcuno che gli somigliava si trattava di una semplice coincidenza. Oltrepassò tranquillamente la folla di siriani, uscì in strada.

Era il tardo pomeriggio. L’illuminazione stradale cominciava ad accendersi. Un bollettino trasmesso in tutte le stanze aveva informato i clienti dell’hotel che per le ore 14 erano previsti diciotto minuti di pioggia leggera, quindi lui aveva rimandato la partenza. Adesso le strade erano fresche e profumate.

Ewing salì sulla limousine che l’hotel usava per trasportare i clienti dal e al vicino spazioporto, poi si girò per un’ultima occhiata al Grand Valloin Hotel. Abbandonare la Terra gli dava una sensazione di tristezza, di stanchezza: c’erano tante cose a ricordare la gloria passata, e tanti segni a indicare la decadenza attuale. Il suo soggiorno era stato pieno di mille avvenimenti, eppure, stranamente, era come se non fosse accaduto nulla. Tornava a Corwin senza aver concluso niente, senza aver scoperto niente, se non il fatto che non potevano contare su nessun aiuto.

Rifletté un attimo sulla questione del viaggio nel tempo. Ovviamente le macchine dei terrestri, a parte la capacità di dar vita a paradossi, erano in grado di creare la materia dove non era mai esistita. Dovevano pur trarre da qualche parte i diversi corpi, visto che almeno due, e forse più, Ewing erano esistiti simultaneamente. E, a quanto sembrava, il nuovo corpo creato col tessuto del tempo continuava a vivere assieme ai suoi alter ego. Se no, pensò, il mio rifiuto di tornare indietro a salvarmi avrebbe dovuto farmi scomparire. Ma non è successo. È terminata soltanto la vita di quell’altro Ewing prigioniero dei siriani, ucciso dalle torture secondodì.

«Spazioporto», annunciò la voce d’un robot.

Ewing si mise in fila davanti allo sportello delle partenze. Notò che pochi terrestri partivano. Solo qualche siriano e alcuni alieni non umanoidi lasciavano la Terra. Allo sportello c’era il solito impiegato robot.

Quando arrivò il suo turno, gli porse i documenti. La macchina li studiò in fretta.

«Lei è Baird Ewing del mondo libero di Corwin?».

«Esatto».

«È giunto sulla Terra quintodì sette quintomese di quest’anno?».

Annuì.

«I suoi documenti sono a posto. La sua nave si trova nell’hangar 107-B. Firmi qui, prego».

Si trattava dell’autorizzazione per il personale dello spazioporto a togliere la sua nave dall’hangar, prepararla alla partenza, caricare a bordo i suoi effetti personali e trasportare il vascello sul campo di decollo. Ewing lesse in fretta il modulo, lo firmò, lo restituì.

«Per favore si accomodi in sala d’attesa Y e aspetti lì finché non sentirà il suo nome. La nave dovrebbe essere pronta in meno di un’ora».

Ewing si leccò le labbra. «Devo presumere, quindi, che il mio nome uscirà dagli altoparlanti?».

«Sì».

L’idea, vista la massiccia presenza di siriani allo spazioporto, non gli andava a genio. «Preferirei che non usaste il mio nome», disse. «Non potremmo stabilire una parola in codice?».

Il robot esitò. «Ha qualche motivo…?».

«Sì». Ewing parlava senza la minima esitazione. «Diciamo che preferirei farmi chiamare col nome di… ah… Blade. Perfetto. Signor Blade. D’accordo?».

Il robot aveva qualche dubbio. «È una procedura irregolare».

«I regolamenti proibiscono in modo specifico l’uso di uno pseudonimo?».

«No, ma…».

«Se i regolamenti non ne parlano, come può essere irregolare? Allora io sono Blade».

È facile lasciare stupefatto un robot. Probabilmente il suo viso metallico si sarebbe contorto in una smorfia di stupore, se fosse stato possibile. Il robot annuì lentamente. Ewing gli sorrise, poi si portò in sala d’attesa Y.