Выбрать главу

La sala d’attesa Y era un maestoso locale a cupola, con un imponente soffitto alto almeno una trentina di metri, intessuto di travi scintillanti di berillio. Sfere luminose, sospese a un’altezza di tre metri circa, fornivano quasi tutta l’illuminazione. A un capo della sala sorgeva un gigantesco altoparlante; all’altro, uno schermo di dieci metri per dieci rallegrava gli annoiati passeggeri in attesa d’imbarco con luci caleidoscopiche in continua metamorfosi.

Per un po’ Ewing guardò, senza il minimo interesse, quello spettacolo multicolore. Aveva trovato un sedile in un angolo del locale, dove difficilmente lo avrebbero notato. Praticamente non c’erano quasi terrestri. I terrestri, a capo chino, se ne restavano sul loro pianeta. E quel grande spazioporto, quel monumento a un’era morta ormai da mille anni, serviva solo ai turisti provenienti da Sirio IV e da altri mondi.

Gli passò accanto una creatura con la testa a sfera e la pelle a scaglie purpuree. Ognuna delle sue mani ad artiglio stringeva una versione in sedicesimo della creatura stessa. Il signor XXX di Xfiz V, pensò amaramente Ewing. Di ritorno da un viaggio di piacere con la famiglia. Ha portato i bambini sulla Terra per mostrare loro come muore una civiltà.

I tre alieni si fermarono non lontano da lui e cominciarono a scambiarsi frasi in un linguaggio sconosciuto, sibilante. Adesso sta raccomandando ai piccoli di guardare tutto. La prossima volta che tornano, potrebbero non trovare più niente.

Per un attimo si lasciò vincere dalla disperazione. Gli tornò in mente per l’ennesima volta che la Terra e Corwin erano condannati, che non esisteva modo per allontanare la morsa inesorabile dei loro nemici. La testa gli cadde in avanti. Se la massaggiò stancamente con le dita.

«Il signor Blade all’ufficio partenze, prego. Il signor Blade è pregato di mettersi in contatto con l’ufficio partenze. Il signor Blade…».

Solo dopo un po’ Ewing ricordò che stavano chiamando lui. Si alzò con un colpo di gomiti.

«Il signor Blade all’ufficio partenze, prego…».

«D’accordo», mormorò. «Arrivo».

Seguì fino al centro della sala d’attesa una linea di luce viola, svoltò a sinistra, si avviò verso l’ufficio partenze. Proprio mentre lo raggiungeva, l’altoparlante ripeté ancora una volta: «Il signor Blade all’ufficio partenze…».

«Sono Blade», disse al robot con cui aveva parlato un’ora prima. Gli mostrò la carta d’identità, e la macchina la controllò.

«Qui c’è scritto che lei si chiama Baird Ewing», annunciò il robot dopo profonde riflessioni.

Ewing sospirò, esasperato. «Controlla la tua banca della memoria! Sì, mi chiamo Ewing, però ho chiesto di essere chiamato col nome di Blade. Non ricordi?».

Le lenti ottiche del robot lampeggiarono freneticamente, mentre la macchina eseguiva un controllo nella banca della memoria. Ewing attese, impaziente, mugugnando, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Dopo quella che gli sembrò una pausa di quindici minuti, il robot tornò in condizioni normali e annunciò: «La sua affermazione è esatta. Lei è Baird Ewing e ha usato lo pseudonimo di Blade. La sua nave l’aspetta all’area di decollo undici».

Sollevato, Ewing accettò la carta d’identità che gli veniva restituita e s’incamminò verso l’area di decollo. Lì riconsegnò il documento a un robinserviente che lo scortò lungo il campo di decollo sino alla nave.

L’astronave era isolata, lontana da ogni altro velivolo per il raggio di trenta metri richiesto dai regolamenti: un ago snello, grazioso, verde-oro, scintillante alle ultime luci del pomeriggio. Ewing salì la scaletta, aprì il portello, entrò.

L’interno sapeva leggermente di chiuso, dopo la settimana nell’hangar. Si guardò attorno. Sembrava tutto in ordine: la sonnovasca in cui avrebbe dormito negli undici mesi di viaggio, l’apparecchiatura radio sul lato opposto, lo schermo visore. Girò la manopola del minuscolo bagagliaio e l’aprì: c’erano anche le sue poche cose. Era pronto per partire.

Ma prima, un messaggio.

Mise in funzione il generatore subeterico, preparandosi a inviare un messaggio a Corwin attraverso l’iperspazio. Il suo primo messaggio, quello che annunciava l’arrivo sulla Terra, non era ancora giunto a destinazione. Avrebbe viaggiato sull’onda portante subeterica un’altra settimana, prima di raggiungere gli apparecchi di ricezione sul suo pianeta.

E quel secondo messaggio che annunciava la sua partenza, purtroppo, lo avrebbe seguito a distanza di pochi giorni. Girò l’interruttore di contatto. Si accese la luce che segnalava il perfetto funzionamento del generatore.

Si mise davanti alla griglia di comunicazione. «Parla Baird Ewing, e sarò breve. Questo è il mio secondo e ultimo messaggio. Sono in partenza per Corwin. La missione è stata un fallimento assoluto, ripeto, fallimento assoluto. La Terra non è in grado di aiutarci. Sta per cadere nelle mani degli abitanti di Sirio IV, di discendenza terrestre, e dal punto di vista culturale è ridotta peggio di noi. Mi spiace di dovervi dare brutte notizie. Spero di ritrovarvi tutti al mio ritorno. Non seguiranno altre comunicazioni. Decollo immediatamente».

Fissò per qualche secondo le luci del generatore che si spegnevano, poi scosse la testa, si spostò, accese l’apparecchio per comunicazioni planetarie, chiese e ottenne la torre di coordinamento centrale dello spazioporto.

«Parla Baird Ewing. Mi trovo sulla nave nell’area di decollo undici. Sono l’unico passeggero a bordo. Intendo partire fra quindici minuti col controllo automatico. Potete darmi l’ora esatta?».

L’inevitabile voce di robot rispose: «Sono le sedici e cinquantotto e tredici secondi».

«Grazie. Ho l’autorizzazione a partire alle diciassette e tredici e tredici secondi?».

«Autorizzazione concessa», disse il robot dopo una breve pausa.

Ewing mugugnò un ringraziamento, inserì i dati nel pilota automatico e accese la nave. Tra quattordici minuti e qualche secondo, l’astronave si sarebbe alzata dalla Terra, che lui si trovasse o meno nella sonnovasca. Ma non c’era fretta: per entrare in ibernazione bastavano pochi istanti.

Si tolse i vestiti, li ripose con cura, mise in funzione il serbatoio che produceva la schiuma nutritiva. Il quadrante del pilota automatico continuò a ticchettare. Undici minuti al decollo.

Addio, Terra.

S’infilò nella vasca, e immediatamente entrarono in gioco le istruzioni subliminali. Conosceva benissimo il procedimento. Doveva solo abbassare quelle leve col piede per entrare in stato di animazione sospesa. Nel suo corpo si sarebbero infilati gli aghi, e il termostato avrebbe cominciato a funzionare. Alla fine del viaggio, con la nave in orbita attorno a Corwin, sarebbe stato risvegliato automaticamente per eseguire l’atterraggio manuale.

Il comunicatore squillò proprio mentre stava per abbassare le leve. Irritato, Ewing alzò gli occhi. Altri guai in vista?

«Chiamiamo Baird Ewing… Chiamiamo Baird Ewing…».

Era il controllo centrale. Guardò il quadrante luminoso: undici minuti al decollo. E di lui sarebbe rimasta soltanto marmellata, se al momento della partenza si fosse ancora trovato in piedi nella nave.

Balzò fuori dalla sonnovasca e rispose alla chiamata. «Ewing. Cosa c’è?».

«Una telefonata urgente dal terminal, signor Ewing. Dicono di doversi assolutamente mettere in contatto con lei prima del decollo».

Rifletté in fretta. Firnik che lo stava ancora inseguendo? O Byra Clork? No, lo avevano visto morire secondodì. Myreck? Forse. Se no, di chi si poteva trattare? «Va bene. Passatemi la telefonata», disse.