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Una voce nuova chiese: «Ewing?».

«Esatto. E lei chi è?».

«Per ora non importa. Ascolta, puoi raggiungermi subito al terminal dello spazioporto?».

La voce era mostruosamente familiare. Ewing uscì in un ruggito di rabbia. «No. Non posso! Il mio pilota automatico è in funzione, e devo partire fra sette minuti. Se lei non può dirmi chi è, temo di non poter modificare i miei piani di volo».

Udì un sospiro. «Certo che posso dirti chi sono. È solo che non mi crederesti, ecco tutto. Però non devi partire. Vieni al terminal».

«No!».

«Ti avviso che posso prendere provvedimenti per impedirti di decollare, anche se in questo caso ci rimetteremmo tutti e due. Non vuoi fidarti di me?».

«Non lascerò questa nave solo per le minacce di uno sconosciuto», ribatté freddamente Ewing. «Mi dica chi è. Altrimenti interromperò la comunicazione ed entrerò in animazione sospesa».

Sei minuti al decollo.

«D’accordo», fu la riluttante risposta. «Te lo dirò. Mi chiamo Baird Ewing e vengo da Corwin. Sono te. Adesso vuoi scendere da quella nave?».

14

Con dita incerte Ewing spense il pilota automatico e disattivò l’unità di sospensione. Chiamò la torre di controllo, e con voce tremante annunciò che per il momento rinunciava ai piani di volo e tornava nel terminal. Poi si rivestì, e quando la robomacchina lo venne a prendere era pronto.

Con l’altro Ewing si era accordato di trovarsi in sala ristoro, dove aveva parlato per la prima volta con Firnik subito dopo l’arrivo sulla Terra. Quando entrò, fu investito dal bisbiglio discreto delle conversazioni. I suoi occhi, come attirati da una calamita, si posarono sull’uomo alto, ben vestito, che stava seduto a un tavolo sul fondo del locale.

Lo raggiunse e sedette a sua volta, senza che l’altro gli dicesse niente. L’uomo al tavolo gli rivolse un sorriso: freddo, deciso, lo stesso sorriso che avrebbe usato lui in una situazione simile. Si leccò le labbra. Si sentiva stordito.

Disse: «Non so proprio da dove cominciare. Chi sei?».

«Te l’ho già detto. Sono te. Sono Baird Ewing».

L’accento, il tono, il sorriso sardonico. Corrispondeva tutto. Ewing ebbe la sensazione che la stanza gli turbinasse attorno. Fissò negli occhi la sua immagine speculare all’altro lato del tavolo.

«Pensavo che fossi morto», disse Ewing. «Il messaggio che mi hai lasciato…».

«Non ti ho lasciato nessun messaggio», lo interruppe immediatamente l’altro.

«Alt». Quella conversazione si svolgeva in un mondo d’incubo. Ewing si sentiva soffocare. «Sei stato tu a salvarmi da Firnik, no?».

L’altro annuì.

«Poi mi hai riportato all’hotel, mi hai messo a letto e hai dettato un messaggio per spiegarmi tutto. Terminavi dicendo che avevi intenzione di scendere a suicidarti nella cabina dell’energitron…».

Gli occhi sbarrati per la sorpresa, l’altro disse: «No, niente affatto! Ti ho riportato all’hotel e me ne sono andato. Non ho lasciato nessun messaggio, non ho detto che volevo suicidarmi».

«Non mi hai lasciato soldi? Nemmeno lo storditore?».

L’uomo davanti a lui scosse la testa con veemenza. Ewing chiuse gli occhi per un momento. «Se quel biglietto non l’hai dettato tu, chi è stato?».

«Parlami del biglietto», disse l’altro.

Ewing gli riassunse in breve, per quanto ricordava, il contenuto del messaggio. L’altro restò ad ascoltarlo, tamburellando con le dita sul tavolo ai punti più importanti. Quando Ewing ebbe terminato, l’altro aggrottò le sopracciglia, perso nei suoi pensieri. Alla fine disse: «Ora capisco. Eravamo quattro».

«Cosa?».

«Te lo spiegherò per gradi. Io sono il primo di noi a cui è successa tutta questa storia. All’inizio si è verificato un paradosso a circolo chiuso, come è inevitabile trattandosi di una distorsione temporale: c’ero io prigioniero in quella camera di tortura, e c’era un io futuro che è venuto a salvarmi. Nel continuum si sono verificate quattro fratture diverse, portando alla creazione di un Ewing che è morto sotto le torture di Firnik, di un Ewing che ha salvato l’Ewing sotto tortura e ha lasciato un messaggio e si è suicidato, di un Ewing che ha salvato l’Ewing sotto tortura e non si è suicidato, e di un Ewing che è stato salvato e non è tornato indietro a salvare se stesso, spezzando così la catena. Due di questi Ewing sono ancora vivi. Il terzo e il quarto. Tu e io».

Calmissimo, Ewing disse: «Sì, la cosa ha senso, per quanto sembri impossibile. Ma così ci troviamo con un Baird Ewing in più, no? Dopo che hai salvato il primo Ewing, perché hai deciso di restare in vita?».

L’altro scrollò le spalle. «Non potevo rischiare di uccidermi. Non sapevo cosa sarebbe successo».

«E invece lo sapevi», lo accusò Ewing. «Sapevi che l’Ewing che avevi salvato non sarebbe morto. Potevi lasciargli un messaggio, ma non l’hai fatto. Per cui lui è stato costretto a ripetere tutto, ha lasciato un messaggio a me, e si è tolto di mezzo».

L’altro uscì in una smorfia incerta. «Forse rappresentava un lato della nostra personalità più coraggioso di quanto non sia io».

«Com’è possibile? Siamo la stessa persona!».

«Vero». L’altro ebbe un sorriso triste. «Ma un essere umano è qualcosa di molto complicato. La vita non è una successione di eventi ben definiti; è un continuo procedere da una decisione all’altra. Le radici della mia decisione si trovavano nel proto-Ewing, e in lui si trovavano anche le basi del suicidio. Io ho compiuto una scelta; lui un’altra. E io sono qui».

Ewing capì che era impossibile adirarsi. L’uomo che aveva di fronte era se stesso, e conosceva sin troppo bene il nodo di contraddizioni interne, di forze e debolezze, che era Baird Ewing; come ogni altro essere umano, del resto. Non era certo il momento di ergersi a giudice. Però si profilavano gravi problemi.

«E adesso cosa facciamo?», chiese. «Intendo tutti e due».

«Ti ho richiamato giù dalla nave per un buon motivo. E non semplicemente perché non volevo essere abbandonato sulla Terra».

«Di che si tratta?».

«La macchina del tempo di Myreck può salvare Corwin dai Klodni», rispose l’altro Ewing, imperturbabile.

Ewing tentò di assorbire l’informazione. «E come?».

«Stamattina sono andato a trovare Myreck. Mi ha accolto a braccia aperte. Ha detto che era felicissimo che fossi tornato a dare un’occhiata alle sue macchine. È stato allora che ho capito che tu avevi trascorso il pomeriggio di ieri lì e non ti eri rituffato nel passato». Scosse la testa. «Eppure ci contavo, sai? Speravo di essere l’unico Ewing ad aver preso un altro cammino sul sentiero del tempo, mentre gli altri avrebbero dovuto continuare a inseguirsi all’infinito tra quartodì e secondodì. Ma tu hai interrotto la sequenza, hai rovinato tutto».

«Tu hai rovinato tutto», esclamò Ewing. «Tu non dovresti essere vivo».

«E tu non dovresti esistere oggi che è quintodì».

«Litigare non serve a niente», disse Ewing, più calmo. «Hai detto che la macchina dei terrestri può salvare Corwin. Come?».

«Ci stavo arrivando. Stamattina Myreck mi ha mostrato tutti i possibili usi della macchina. Si può trasformare in un proiettore che invia sul mondo esterno un raggio capace di scaraventare nel passato oggetti d’ogni dimensione».

«La flotta dei Klodni», disse subito Ewing.

«Esatto! Installiamo il proiettore su Corwin e aspettiamo che arrivino i Klodni, poi li rispediamo indietro di cinque miliardi di anni o giù di lì, in un viaggio di sola andata!».

Ewing sorrise. «E io che stavo per scappare. Stavo tornando a casa proprio mentre tu scoprivi queste cose».