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L’altro scrollò le spalle. «Non avevi nessun motivo di sospettarle. Non ti sei mai fatto dimostrare praticamente come funziona la macchina. Io sì, e ho immaginato che qualcosa del genere fosse possibile. D’altronde l’hai intuito anche tu».

«Io?».

«Appena Myreck ti ha detto che la loro macchina è in grado di dominare il tempo, ti è venuta l’idea che un’ipotesi simile non fosse del tutto assurda. Però te ne sei dimenticato. Io no».

Era spaventoso sedere di fronte a un uomo che conosceva ogni suo pensiero, ogni segreto più nascosto, dall’infanzia sino a un punto situato tre giorni prima nel Tempo Assoluto. Dopo di allora, naturalmente, le loro esistenze divergevano come se fossero stati due estranei.

«Quindi cosa proponi di fare?», chiese Ewing.

«Torniamo da Myreck. Gli strappiamo i piani per costruire la macchina. Poi torniamo qui di corsa, saliamo sulla nave…».

Gli mancò la voce. Ewing fissò freddamente il suo alter ego e disse: «Sì? E poi? Sto aspettando».

«Sulla nave… Sulla nave può salire un solo passeggero, vero?», chiese l’altro debolmente.

«Sì», rispose Ewing. «È maledettamente vero. Quando avremo rubato i piani, come facciamo a decidere chi torna su Corwin e chi resta qui?».

Sapeva che l’espressione angosciata dell’altro era identica alla sua. Si sentiva male, e sapeva che l’altro avvertiva la stessa inquietudine. Provava la frustrazione di qualcuno che, guardandosi allo specchio, tenti disperatamente di fare un gesto che non venga imitato dall’immagine imprigionata nel vetro.

«A questo ci penseremo dopo», disse l’altro Ewing, incerto. «Per prima cosa facciamoci consegnare i piani di costruzione da Myreck. Poi avremo tutto il tempo di risolvere gli altri problemi».

Presero un taxi a guida robotica, partirono verso il quartiere periferico dove sorgeva l’Università di Scienze Astratte. Lungo strada, Ewing si girò verso l’altro e disse: «Come facevi a sapere che stavo ripartendo per Corwin?».

«Non lo sapevo, in effetti. Appena ho scoperto da Myreck che tu esistevi e che la sua macchina può salvare il nostro pianeta, sono tornato all’hotel. Sono salito alla tua stanza, ma la piastra d’identificazione non ha reagito, eppure la porta era programmata per la mia, per la nostra identità. Così sono sceso, ho chiamato l’impiegato dall’atrio e ho chiesto di te. Mi hanno detto che avevi saldato il conto e ti eri avviato verso lo spazioporto. Ti ho seguito, e sono arrivato appena in tempo».

«E se io avessi rifiutato di scendere dalla nave, d’incontrarti?», gli chiese.

«Sarebbe stato un grosso guaio. Avrei sostenuto che io sono Ewing e che tu mi stavi rubando la nave, il che in un certo senso è vero. Avrei chiesto che controllassero a fondo i miei documenti. Ovviamente avrebbero scoperto che io sono Ewing, e si sarebbero chiesti chi diavolo sia tu. Ci sarebbe stata un’indagine ufficiale, non ti avrebbero lasciato partire. Ma in ogni caso avremmo corso dei rischi, sia che avessero scoperto che esistono due Ewing, sia che tu avessi ignorato i loro ordini e fossi partito lo stesso. Ti avrebbero messo alle calcagna un intercettatore, e non so proprio come sarebbe andata a finire».

Il taxi fermò davanti all’isolato vuoto che era l’Università di Scienze Astratte. Ewing lasciò pagare la corsa al suo alter ego. Scesero.

«Aspettami qui», disse l’altro. «Mi metterò all’interno del campo del loro individuatore e aspetterò che aprano. Tu aspetta dieci minuti, poi seguimi».

«Non ho orologio», ribatté Ewing. «Me l’ha preso Firnik».

«Ti dò il mio», disse l’altro, impaziente. Slacciò il cinturino e gli passò l’orologio. Sembrava un modello costoso.

«Dove l’hai trovato?», chiese Ewing.

«L’ho rubato a un terrestre, assieme a cinquecento crediti circa, terzodì mattina. Tu… No, non tu, l’Ewing che più tardi è venuto a salvarti dormiva nella nostra stanza all’hotel, quindi ho dovuto cercare un altro rifugio. E dopo aver comperato la maschera e lo storditore mi restavano appena una decina di crediti».

I dieci crediti che qualcuno ha lasciato a me, pensò Ewing. I paradossi si moltiplicavano. La cosa migliore da fare era ignorarli.

L’orologio gli disse che erano le 18,50 di quintodì. Ewing restò a guardare il suo gemello che traversava la strada verso lo spazio vuoto, vagabondava apparentemente senza meta, e all’improvviso svaniva. L’Università di Scienze Astratte lo aveva risucchiato.

Ewing aspettò che passassero i minuti. Il tempo scorreva lentissimo. Cinque… sei… sette.

All’ottavo minuto, s’incamminò verso lo spazio vuoto con quella che sperava sembrasse l’aria più indifferente del mondo. Al nono minuto si trovava solo a pochi metri dai confini dell’isolato. Si sforzò di restare immobile, di lasciar trascorrere l’ultimo minuto. Lo storditore era appeso al suo fianco. Anche l’altro Ewing portava un’arma, perfettamente identica alla sua.

A nove minuti e quarantacinque secondi riprese a camminare verso lo spazio vuoto. Arrivò nel punto previsto esattamente all’inizio del decimo minuto. Si guardò attorno come aveva fatto l’altro Ewing, e di nuovo si sentì trasportare da adesso a adesso meno tre microsecondi. Svanì improvvisamente dal mondo esterno e si ritrovò dentro l’Università di Scienze Astratte.

Gli si presentò una scena bizzarra. L’altro Ewing, con le spalle rivolte alla parete, aveva estratto lo storditore e lo aveva regolato sulla potenza minima. Lo teneva puntato contro sette o otto membri dell’Università, pallidissimi, coi visi stravolti dalla paura. Nessuno di loro era in grado di reagire.

Ewing incontrò gli occhi accusatori dell’Accademico Myreck, che lo aveva fatto entrare.

«Grazie per aver accolto mio… ehm… fratello», disse l’altro Ewing. Per un attimo, i due Ewing si fissarono. Negli occhi dell’altro Ewing lesse un rimorso profondo, e capì che quell’uomo era molto, infinitamente di più di un fratello, di un semplice gemello. Gli abissi delle loro anime erano identici.

«Ci spiace enormemente», disse a Myreck. «Credeteci, è un gesto che ci causa un dolore immenso».

«Ho già spiegato per quale motivo siamo qui», disse l’altro Ewing. «Giù ci sono un modellino in scala e un’intera serie di schemi, più diversi quaderni di analisi teorica. Un uomo da solo non ce la farebbe a portare via tutto».

«I quaderni sono in copia unica», disse Myreck piano, con una voce piena d’amarezza.

«Li conserveremo con ogni cura», promise Ewing. «Ma noi ne abbiamo più bisogno di voi. Credeteci».

L’altro Ewing disse: «Tu resta qui e tienili sotto tiro. Io scendo con Myreck a prendere tutto quello che ci serve».

Ewing annuì, estrasse la pistola, si portò con le spalle al muro, puntando l’arma sugli sfortunati terrestri. Trascorsero cinque minuti prima che il secondo Ewing e Myreck tornassero. Portavano carte, quaderni, e un modellino che doveva pesare almeno venti chili.

«È tutto qui», disse l’altro. «Myreck, adesso interromperai il campo di fase temporale e mi farai uscire dall’edificio. Mio fratello vi terrà sotto tiro. Non cercate di fare scherzi».

Dieci minuti dopo, tutti e due gli Ewing si trovavano all’esterno dell’Università di Scienze Astratte.

Il loro bottino, nell’insieme, era alto quasi quanto loro.

«È stato terribile», disse Ewing.

L’altro annuì. «Ho sofferto anch’io. Sono così gentili…

«È un modo mostruoso di ripagare la loro ospitalità. Ma quel proiettore ci è indispensabile, se vogliamo salvare quello che abbiamo di più caro».

«Sì», rispose Ewing, in tono teso. «Ciò che tutti e due abbiamo di più caro». Scosse la testa: stavano per iniziare i guai veri.

«Forza», disse, gettando un’occhiata allo spazio vuoto alle loro spalle. «Andiamocene. Dobbiamo caricare tutta questa roba sulla nave».