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«Tu! Arrenditi! Non puoi sperare di sfuggirci!».

Lo so, pensò fra sé e sé. Ma non voglio nemmeno essere preso vivo.

Si appiattì contro un’autobotte piena di carburante, fermò l’avanzata dei poliziotti con numerosi colpi di storditore. Loro risposero al fuoco con parsimonia estrema. Sul campo c’erano apparecchiature molto delicate, e in ogni caso preferivano prendere vivo il loro uomo. Ewing attese finché il poliziotto più vicino non arrivò a una cinquantina di metri da lui.

«Vieni a prendermi», urlò. Poi si girò e si mise a correre sull’immenso campo d’atterraggio.

Il campo d’atterraggio si stendeva per tre o quattro chilometri. Corse agilmente, senza avvertire fatica, a grandi cerchi, fermandosi di tanto in tanto a sparare agli inseguitori. Voleva tenerli a una distanza ragionevole finché. …

Sì. Ora.

Sul campo d’atterraggio scesero le tenebre. Ewing alzò la testa per scoprirne la fonte.

Sopra di lui era sospesa una grande astronave, che scendeva poco per volta, come appesa a una carrucola. I suoi razzi direzionali rombavano, proiettando sul terreno fiamme scarlatte. Ewing, vedendola, sorrise.

Sarà una cosa veloce, pensò.

Udì le urla di stupore dei poliziotti. All’abbassarsi della nave sul campo d’atterraggio, indietreggiarono. Ewing si lanciò in un cerchio sempre più ampio, cercando mentalmente di calcolare l’orbita del velivolo che scendeva.

Sarà come cadere sul sole. Un caldo enorme, veloce.

Scoprì il punto in cui sarebbe atterrata la nave. Sentì un calore improvviso. Ormai si trovava nell’area di pericolo. Corse avanti, verso quell’aria che ribolliva. Per Corwin, pensò. Per Laira. E per Blade.

«Idiota! Si farà uccidere!», urlò qualcuno, lontanissimo. Vampate di gas incandescente lo avvolsero; sentì il rombo gigantesco della nave. Poi lina luce sterminata gli esplose attorno, e in un microsecondo scomparvero coscienza e dolore.

L’astronave toccò il suolo.

Nel terminal, gli altoparlanti annunciarono: «Attenzione, prego. Vi ringraziamo per la vostra collaborazione. Il criminale è stato individuato e non costituisce più una minaccia per la società. Potete riprendere le vostre attività. Vi ringraziamo di nuovo per la vostra collaborazione a questa operazione di polizia, e speriamo di non avervi causato danni o ritardi».

Nel bar del terminal, Ewing fissò senza parole i due bicchieri sul tavolo, col liquore bevuto solo a metà: il suo, e quello dell’uomo che era morto. Con un gesto improvviso, brusco, versò nel suo bicchiere il liquore contenuto nell’altro, fece un brindisi e bevve a grandi sorsate. Il liquore forte scese nel suo stomaco, caldissimo.

Cosa bisognerebbe dire e pensare e fare, si chiese, quando un uomo sacrifica la propria esistenza per farti fuggire? Niente. Non si può nemmeno dire "grazie". Non sarebbe di buon gusto, non credi?

Aveva osservato l’intera scena dalla finestra panoramica del bar: l’inseguimento disperato, la caccia spietata, lo scambio di colpi. Si era accorto, atterrito, che una nave di linea stava scendendo, che era già inserita nell’orbita d’atterraggio, che non avrebbe potuto fermarsi nemmeno se sul campo si fosse trovato un intero reggimento.

Anche attraverso la vetrata affumicata della finestra, l’improvvisa esplosione di luce gli aveva ferito le retine. E per tutti gli anni che gli restavano da vivere avrebbe portato con sé l’immagine della minuscola figura di un uomo che, senza il minimo timore, correva sotto i getti dell’astronave, svaniva all’improvviso in un fiume di fiamme.

Si alzò. Si sentiva stanchissimo, debolissimo. Non era certo nello stato d’animo di chi è finalmente libero di tornare alla sua casa, a sua moglie, a suo figlio. La missione stava per risolversi in un successo completo, ma non provava la minima soddisfazione. Troppi uomini avevano rinunciato alla vita, ai loro sogni, per rendere possibile quel successo.

Trovò chissà come l’ufficio partenze, presentò i moduli che un se stesso ormai morto aveva compilato ore prima. «La mia nave si trova alla zona di decollo undici», disse al robot. «Sarei dovuto partire alle 17 di oggi pomeriggio, ma in seguito ho cambiato i piani di volo».

Aspettò torpidamente che il robot controllasse tutto, gli presentasse altri moduli da riempire, e alla fine lo indirizzasse al campo di decollo. Lì gli venne incontro un altro robot, che lo condusse alla nave.

La sua nave. Che poteva essere partita per Corwin cinque ore prima, con un altro pilota.

Ewing scrollò le spalle, tentò di respingere quella nube di tristezza. Se la nave avesse decollato prima con l’altro Ewing, la sua missione si sarebbe risolta in un fallimento. Cinque ore di differenza significavano moltissimo, nell’economia dell’universo.

E poi era idiota pensare che qualcuno fosse scomparso. Chi era morto? Baird Ewing? Io sono ancora vivo, pensò. Quindi, chi è morto?

Salì sulla nave, si guardò attorno. Era tutto pronto per la partenza. Fece una smorfia. L’altro Ewing, se non sbagliava, gli aveva detto di aver inviato un messaggio a Corwin, probabilmente per informare le autorità del pianeta che stava tornando a mani vuote. Mise in funzione il comunicatore subeterico, inviò un nuovo messaggio. Disse di non tener conto della comunicazione precedente: la situazione aveva subito nuovi sviluppi. Tornava su Corwin con quella che poteva essere l’arma della loro salvezza.

Chiamò la torre di controllo centrale e chiese il permesso di decollare entro dodici minuti. Aveva tutto il tempo necessario. Accese il pilota automatico, si svestì, s’immerse nel bagno nutritivo.

Con un gesto veloce dei piedi mise in funzione l’animazione sospesa. Aghi gli morsero il corpo; la temperatura cominciò a scendere. Dall’apparecchio sopra di lui scese una ragnatela di schiuma, avviluppandolo in un manto che lo avrebbe protetto dagli effetti del decollo ad alta accelerazione.

Le droghe gli intorpidirono il cervello. Avvertì vagamente un brivido mentre la temperatura scendeva precipitosamente sotto lo zero. Più tardi, appena lui si fosse addormentato, sarebbe scesa molto di più. Aspettò pigramente che il sonno lo avvolgesse.

Quando l’astronave decollò, la sua coscienza funzionava al livello minimo. Si accorse appena che la nave si era alzata dalla Terra. Prima che finisse l’accelerazione, era immerso in un sonno totale.

16

Le ore passarono, ed Ewing dormì. Le ore si trasformarono in giorni, in settimane, in mesi. Undici mesi, dodici giorni, sette ore e mezzo. Ewing continuò a dormire mentre la sua navicella compiva il viaggio di ritorno.

Giunse il momento. La nave uscì dall’iperspazio quando gli strumenti di rilevazione indicarono che il viaggio era terminato. Il computer, automaticamente, inserì la nave in un’orbita fissa attorno al pianeta. L’unità di animazione sospesa si disattivò. Poco per volta la temperatura tornò normale, e un ago s’infilò nel fianco di Ewing, svegliandolo.

Era a casa.

Non appena furono cessati gli effetti più immediati del lungo sonno, Ewing si mise in contatto con le autorità. Chino sull’apparecchio di comunicazione, mentre sullo schermo appariva l’immagine blu, deliziosa, del suo pianeta, attese.

Dopo un attimo, giunse la risposta. «Edificio Mondiale, Corwin. Abbiamo ricevuto la sua chiamata. Identificazione, prego».

Ewing rispose con la serie di codici simbolici che, anni prima, erano stati scelti come sua identificazione. Li ripeté tre volte, affidandosi alla memoria.

Gli giunsero subito i segnali di ricezione, e poi la stessa voce disse: «Ewing? Finalmente!».

«Sono passati appena un paio d’anni, no? Le cose non dovrebbero essere cambiate troppo».