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«No. Non troppo».

In quella voce si avvertiva una tensione sotterranea, inspiegabile; ma lui non tirò in lungo la conversazione. Trascrisse le coordinate che gli trasmettevano, le integrò e le inserì nel computer, ed eseguì l’atterraggio.

Scese allo spazioporto di Broughton, a venticinque chilometri di distanza dalla capitale di Corwin, Broughton. L’aria era fresca, deliziosa. Conteneva quella percentuale in più d’ossigeno che gli era mancata sulla Terra. Sceso dalla nave, aspettò che lo venissero a prendere. Ammirò l’arco azzurro del cielo, disseminato di nubi, e il magnifico filare di alberi Imperatore, ognuno alto più di duecento metri, che costeggiavano il campo d’atterraggio. Sulla Terra non esistevano alberi paragonabili a quelli.

Arrivò un automezzo. Un inserviente, sorridendo, gli disse: «Bentornato, signor Ewing!».

«Grazie», rispose lui, salendo. «È bello essere di nuovo a casa».

Al terminal lo attendeva una delegazione radunata in fretta. Riconobbe il presidente Davidson, tre o quattro membri del Consiglio, qualcuno dell’università. Si guardò attorno, chiedendosi come mai Laira e suo figlio non erano venuti a porgergli il benvenuto.

Poi li vide. Erano con alcuni suoi amici, in fondo al gruppo di autorità. Si fecero avanti. Laira aveva un sorriso strano sulle labbra, Blade fissava senza capire bene un uomo di cui probabilmente non ricordava nulla.

«Ciao, Baird», disse Laira. La sua voce era più acuta di quanto non ricordasse, e lei sembrava più vecchia dell’immagine mentale che portava con sé. I suoi occhi erano più scavati, il viso più magro. «È meraviglioso riaverti qui. Blade, saluta tuo padre».

Ewing guardò il ragazzo. Era cresciuto, si era smagrito. Il bambino di otto anni che aveva lasciato lì al momento della sua partenza era diventato un ragazzo di quasi undici anni. Blade guardò, incerto, suo padre. «Ciao… Papà».

«Ciao, Blade!».

Sollevò il ragazzo da terra, lo lanciò in aria, lo riprese al volo, lo rimise giù. Poi si girò verso Laira e la baciò. Ma quei saluti erano stranamente freddi. Lo tormentava un pensiero strano: Sono davvero Baird Ewing? Sono io l’uomo che è cresciuto su Corwin, ha sposato questa donna, ha costruito la mia casa, ha procreato questo ragazzo? Oppure Ewing è morto sulla Terra, e io sono solo un doppione identico all’originale?

Era un’idea che avrebbe distrutto chiunque. Capì che era inutile tormentarsi per quello: aveva il corpo di Baird Ewing, i suoi ricordi e la sua personalità. E un uomo di cos’è fatto, se non della propria esistenza fisica e della tenue Gestalt di ricordi e pensieri che qualcuno chiama anima? Io sono Baird Ewing, si ripeté, per tacitare i dubbi che gli nascevano dentro.

Lo stavano fissando tutti. Sperò che i suoi turbamenti non si manifestassero all’esterno. Si girò verso il presidente Davidson e chiese: «Avete ricevuto i miei messaggi?».

«Tutti e tre… Erano solo tre, vero?».

«Sì», rispose Ewing. «Mi spiace per gli ultimi due…».

«Credimi, quando hai inviato quel messaggio per dire che tornavi qui senza aver trovato niente siamo rimasti tutti scombussolati. Contavamo molto su di te, Baird. E poi, nel giro di quattro ore appena, è arrivata la seconda comunicazione…».

Ewing sorrise, finse una sicurezza che non sentiva. «Ho trovato qualcosa all’ultimo minuto. Qualcosa che può salvarci dai Klodni». Si guardò attorno, incerto. «Quali sono le ultime notizie? Come va coi Klodni?».

«Hanno conquistato Borgman», rispose Davidson. «Adesso è il nostro turno. Manca un anno, dicono. Hanno cambiato direzione dopo Lundquist…».

«Hanno assoggettato anche Lundquist?», lo interruppe lui.

«Sia Lundquist che Borgman. Ormai hanno distrutto sei pianeti. E Corwin è il prossimo».

Ewing scosse la testa, lentamente. «No, questo non è vero. Adesso sono loro che devono difendersi da noi. Dalla Terra ho riportato qualcosa con me, e non piacerà ai Klodni».

Quella sera si presentò al Consiglio. Gli avevano concesso di trascorrere il pomeriggio a casa, di riprendere contatto con la famiglia, di iniziare a colmare il distacco creato da due anni di lontananza.

Portò con sé i quaderni, gli schemi e il modellino che aveva rubato a Myreck. Spiegò nei minimi dettagli come intendeva sconfiggere i Klodni. Non appena ebbe finito, si scatenò la tempesta di domande.

Jospers, il rappresentante delle regioni del nord, uscì immediatamente in un’esclamazione: «Viaggi nel tempo? Impossibile!».

Altri quattro membri del Consiglio fecero eco alle sue perplessità. Il presidente Davidson chiese il silenzio. Ewing si mise a urlare più forte degli altri. «Signori, non vi chiedo di credere a ciò che vi ho detto. Voi mi avete inviato sulla Terra in cerca d’aiuto, e io l’ho trovato».

«Ma è incredibile che lei ci venga a raccontare…».

«La prego, signor Jospers. Questa macchina funziona».

«E lei come fa a saperlo?».

Ewing trasse un profondo respiro. Avrebbe preferito non rivelare quel particolare. «L’ho sperimentata», rispose. «Sono tornato indietro nel tempo. Mi sono trovato a parlare con me stesso. Non dovete credere nemmeno a questo. Potete restarvene qui a starnazzare come tante oche, lasciare che i Klodni ci distruggano come hanno distrutto Barnholt e Borgman e Lundquist, come distruggeranno tutte le altre colonie in questa zona dello spazio. Però io vi dico che il mio metodo di difesa funziona».

Davidson, tranquillo, chiese: «Dicci un po’, Baird. Quanto costerà questa tua… ehm… arma, e quanto tempo ci vorrà?».

Ewing rifletté un attimo sulla domanda. «Direi che, per far funzionare la macchina sulla scala che ci serve, occorreranno da sei a otto mesi di lavoro pieno da parte di un gruppo di tecnici specializzati. E credo proprio che la spesa non possa essere inferiore a tre milioni di stellor».

Jospers balzò immediatamente in piedi. «Tre milioni di stellor! Signori, vi chiedo…».

Non riuscì mai a fare la sua domanda. In un tono che non ammetteva interruzioni, Ewing disse: «Sono io che vi chiedo, signori, quanto pensate che valga la vostra vita, anche se poi la trascorrete a dire idiozie. Che importanza ha il costo dell’impresa? Tra un anno i Klodni arriveranno, e tutti i vostri piani economici non avranno più la minima importanza. A meno che non abbiate un altro piano per sconfiggerli, è ovvio».

«Tre milioni di stellor rappresentano il venti per cento del bilancio annuale», fece notare Davidson. «Se per caso la tua macchina si dimostrasse inutile…».

«Ma non capite?», urlò Ewing. «Non ha nessuna importanza! Se la mia macchina non funzionasse, non dovrete mai più preoccuparvi di questioni economiche!».

Era un argomento a prova di bomba. Mugugnando, Jospers diede la sua approvazione, e a quel punto l’opposizione crollò. Si decise di costruire la macchina che Ewing aveva trovato sulla Terra. Non c’era scelta. L’ombra della flotta Klodni si proiettava sempre più lunga sulle stelle, e non esistevano altre armi. Nulla che fosse a loro conoscenza poteva arrestare l’avanzata degli alieni.

Forse, una macchina sconosciuta ci sarebbe riuscita.

Ewing aveva sempre amato molto la propria privacy, ma ormai per lui la privacy non esisteva più. La sua casa doveva necessariamente essere aperta di continuo a tutti. Ministri e altri uomini politici giungevano ininterrottamente a discutere con lui il nuovo progetto. Gli studiosi dell’Università volevano informazioni sulla Terra. Innumerevoli editori chiesero a Ewing di scrivere qualcosa per loro; riviste e compagnie televisive lo pregarono di vendere le sue memorie.

Rifiutò ogni offerta. Non gli interessava sfruttare per la propria ricchezza il viaggio sulla Terra.