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Mentre Laira preparava la colazione, lui si mise alla finestra a guardare le nebbie grigie, turbinanti, che precedevano l’alba. Viveva da tanto tempo sotto il manto della minaccia dei Klodni che gli riusciva difficile credere che fosse giunto il momento.

Mangiò senza allegria, senza nemmeno avvertire il sapore del cibo, senza dire nulla.

Fu Laira a dire: «Ho paura, Baird».

«Paura?». Lui sorrise. «E di che?».

Sua moglie non sembrava divertita. «Dei Klodni. Della follia che stai per commettere». Dopo un attimo aggiunse: «Però tu non mi sembri spaventato, Baird. E probabilmente è questa l’unica cosa che importa».

«Infatti», ammise lui, pensieroso. «Non c’è nulla di cui aver paura. I Klodni non mi vedranno nemmeno. Non esiste in tutto l’universo un rilevatore di massa tanto sensibile da captare un’astronave così piccola a un paio d’anni luce di distanza. La mia massa è insignificante; e poi la flotta dei Klodni produce un rumore di fondo troppo forte».

E poi, aggiunse tra sé, come potrei aver paura di loro?

Non erano nemmeno umani. Erano barbari senza volto, insensibili a tutto, un’orda di formiche che passava di mondo in mondo spinta da un impulso irresistibile a uccidere. Erano pericolosi, ma non spaventosi.

La paura va riservata ai veri nemici: agli esseri umani che si battono contro altri esseri umani, a chi eleva a sistema il doppio gioco. C’erano tutti i motivi di rispettare la forza dei Klodni, ma non di averne paura. La paura andava riservata a individui come Rollun Firnik e ai suoi affini.

Terminato di mangiare, si fermò un attimo in camera di Blade per dargli un ultimo sguardo. Dormiva, e non lo svegliò. Infilò la testa, sorrise, chiuse la porta.

«Forse dovresti svegliarlo, salutarlo», gli suggerì Laira, incerta.

Ewing scosse la testa. «È troppo presto. Alla sua età ha bisogno di dormire. In ogni modo, penso che quando tornerò sarò un eroe. Questo gli farà piacere».

Notò l’espressione sul viso di lei e aggiunse: «Tornerò. Potresti scommetterci tutti i nostri risparmi».

Quando arrivò allo spazioporto di Broughton, l’alba tingeva il cielo. Consegnò l’auto a un inserviente e s’incamminò verso la sede dell’amministrazione, dove un gruppo di rappresentanti ufficiali del governo, i visi tesi, lo aspettava.

Ci siamo, pensò. Se fallisco, Corwin è finito.

Il destino di un mondo poggiava tutto sul piano folle di un solo uomo. Era un peso che non gli faceva piacere sostenere.

Salutò Davidson e gli altri con una certa rigidità. La tensione cominciava a impadronirsi di lui. Davidson gli passò una cartelletta.

«È la formazione di volo dell’armata Klodni», spiegò il presidente. «L’abbiamo fatta estrapolare dal computer centrale. Saranno qui fra nove ore e cinquanta minuti».

Ewing fece segno di no. «Si sbaglia. Non arriveranno mai qui. Li affronterò come minimo a un anno luce da qui, se possibile anche di più. E da lì non si muoveranno».

Guardò le carte. Rappresentavano lo spiegamento di forze dei Klodni.

«Il computer dice che la flotta è composta di settecentosettantacinque navi», disse Davidson.

Ewing indicò la formazione. «Un cuneo perfetto. Una nave d’assalto seguita da due navi, seguite da una fila di quattro, seguite da otto, e via in progressione matematica. Molto interessante».

«È la formazione di battaglia standard dei Klodni», disse con voce stridente il dottor Harmess, della facoltà di scienze militari. «La nave d’assalto resta sempre in testa. Nessuna delle altre osa spezzare la formazione senza aver ricevuto l’ordine. Una disciplina totalitaria perfetta».

Ewing sorrise. «Sono lieto di saperlo».

Controllò l’orologio. Nel giro di dieci ore circa, le armi micidiali dei Klodni si sarebbero scagliate su un pianeta praticamente inerme. Una flotta di settecentosettantacinque corazzate era un’armata impossibile da sconfiggere. Corwin aveva forse una dozzina di navi, e nemmeno tutte in condizioni di combattere nonostante le vigorose migliorie apportate all’ultimo minuto. Nessun pianeta della galassia civile poteva accollarsi il peso di una flotta da combattimento di quasi ottocento navi.

«Bene», disse lui dopo un attimo di silenzio. «Sono pronto a partire».

Lo condussero sul campo bagnato di pioggia, sino all’hangar ben sorvegliato dov’era stata installata la nave del Progetto X. Le guardie sorrisero e si scostarono riconoscendo Ewing e il presidente. Gli inservienti spalancarono le porte dell’hangar, e la nave apparve.

Era una lancia snella, di colore nero, appena poco più grande del vascello che lo aveva condotto sulla Terra e poi di nuovo su Corwin. Però all’interno non sorgevano i complicati impianti dell’animazione sospesa. Al loro posto si trovava una struttura di tubi a spirale, la cui punta usciva di qualche micromillimetro dallo scafo della nave. Alla base dei tubi sorgeva un complesso pannello di comando.

Ewing annuì, soddisfatto. Gli inservienti spinsero la nave fuori dell’hangar. Le mascelle d’acciaio di un potente trattore la sollevarono all’angolatura prevista e la trasportarono al campo di decollo.

Una nave nera contro il nero dello spazio. I Klodni non l’avrebbero mai notata. Ewing sentì accendersi in sé la gioia della battaglia.

«Partirò immediatamente», disse.

Il decollo vero e proprio sarebbe stato affidato al pilota automatico. Ewing salì a bordo, si accomodò sulla poltroncina antiaccelerazione, si lasciò avvolgere nella ragnatela di schiuma protettiva. Accese lo schermo visore. Il gruppo di corwiniti, immobile ai margini della zona di decollo, lo osservava con occhi tesi.

Non li invidiava. Per evidenti motivi di sicurezza avrebbe dovuto mantenere il silenzio radio più assoluto sino a dopo l’incontro con la flotta nemica. Loro avrebbero atteso per mezza giornata o forse più, senza sapere se dal cielo sarebbe scesa o meno la morte. Avrebbero trascorso un giorno terribile.

Con un gesto quasi impulsivo Ewing abbassò la leva di decollo. La nave balzò verso l’alto, schiacciandolo sulla poltroncina. Ewing lasciava il suolo di Corwin per la seconda volta in vita sua.

La nave salì lungo un’ampia orbita a iperbole, mentre lui aspettava, schiacciato dall’accelerazione. Pochi secondi dopo i razzi si spensero. Il resto del viaggio, programmato per la guida manuale, sarebbe stato meno faticoso.

Nelle prime due ore, la rotta prestabilita lo portò molto lontano da Corwin. Una veloce triangolazione gli disse che si trovava a circa un anno luce e mezzo dal pianeta. Gli sembrò una distanza di sicurezza sufficiente. Spense i propulsori, inserì la nave in un’orbita stazionaria perpendicolare alla linea d’attacco estrapolata dal computer. Attese.

Trascorsero tre ore prima che sul rilevatore di massa della nave apparisse il primo scintillio verde. La linea tremolò, oscillò. Ewing mise a fuoco lo strumento e aspettò.

La linea s’ingrandì. S’ingrandì ancora, ancora, ancora.

Il cuneo dei Klodni si stava avvicinando.

Ora che l’attesa era terminata, si sentiva completamente calmo. Con gesti decisi, abili, attivò l’apparecchio per il trasferimento temporale. Abbassò la leva centrale, e il pannello di comando si accese. La punta della struttura a spirale uscì di quasi tre centimetri dallo scafo, quanto bastava ad assicurare una traiettoria perfetta al raggio.

Lavorando con un occhio al rilevatore di massa e un altro al pannello di comando del proiettore temporale, Ewing calcolò l’intensità da dare al campo. La formazione dei Klodni si stendeva con perfezione geometrica: una nave in testa, seguita da due, poi quattro navi in terza fila, otto in quarta, sedici in quinta. Due enormi ali di circa duecentocinquanta navi ciascuna fungevano da retroguardia, formando altri due cunei che probabilmente entravano in azione durante le ultime fasi dell’attacco. L’elemento più importante era l’ampiezza di quelle due ali.