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Qualche minuto dopo, la nave arrivò al di sopra di una grossa piastra d’atterraggio in ferrocemento. Restò sospesa per un attimo sul getto dei razzi, poi si posò dolcemente a terra. Ewing slacciò la cintura con dita appesantite dalla gravità. Lo schermo inquadrò piccoli automezzi simili a scarafaggi che correvano sul campo verso la nave. La squadra di decontaminazione, senza dubbio, formata di robot.

Aspettò che avessero terminato il loro lavoro, poi spalancò il portello e scese. L’aria aveva un buon odore (strano, dato che il suo pianeta d’origine aveva un’atmosfera composta d’ossigeno al ventitré per cento, cioè il due per cento in più di quella terrestre) e la giornata era calda. Ewing vide la struttura a cupola di un terminal e vi si diresse.

Un robot massiccio, senza viso, lo esaminò con fotoraggi quando lui oltrepassò le porte girevoli. All’interno, il terminal era un labirinto di luci accecanti, rosse e verdi, accese e spente, alte e basse. Ewing restò stupefatto.

Esseri di ogni tipo si affollavano nell’edificio. Vide quattro creature semi-umanoidi, con teste a bulbo, perse in un’accesa discussione lì vicino. Più lontano, si muovevano sciami di esseri più simili ai terrestri. Ewing era perplesso dal loro aspetto.

Alcuni erano «normali», stranamente muscolosi e d’aspetto rozzo, ma insomma su Corwin non avrebbero certo suscitato esclamazioni di sorpresa. Gli altri, invece!

Vestiti in maniera sgargiante, con tuniche color turchese e nero, grigio e oro, costituivano uno spettacolo bizzarro. Uno non aveva orecchie; il suo cranio era nudo, decorato esclusivamente da collane di gioielli che sembravano inserite nella pelle della testa. Un altro aveva una gamba sola e si sorreggeva su una stampella luminosa. Un terzo portava al naso un anello d’oro con smeraldi.

Non se ne vedevano nemmeno due uguali. Da studioso di strutture culturali qual era, Ewing capì subito il motivo del fenomeno: l’ipersviluppo delle decorazioni era un gradino evolutivo comune fra le civiltà altamente evolute, come quella terrestre. Ma vedere quello sfoggio rutilante lo faceva sentire terribilmente provinciale. Corwin era un mondo nuovo, anche dopo un millennio di colonizzazione; lì non avevano ancora preso piede mode del genere.

Esitante, si avvicinò al gruppo di terrestri decorati più vicino. Stavano parlando con voci artefatte, dai toni striduli.

«Chiedo scusa», disse. «Sono appena arrivato dal mondo libero di Corwin. Qui esiste un posto dove possa mettermi in contatto con le autorità?».

La conversazione cessò, come colpita da un’ascia. I tre si girarono a fissare Ewing. «Lei è di una colonia?», chiese l’unipede, in modo quasi incomprensibile.

Ewing annuì. «Corwin. A sedici parsec da qui. La Terra l’ha colonizzato un migliaio di anni fa».

I terrestri si misero a parlare a una velocità che gli rese impossibile capire. Sembrava quasi un loro linguaggio personale, un gergo artificiale. Lui fissò quei visi imbellettati e si sentì disgustato.

«Dove posso mettermi in contatto con le autorità?», chiese di nuovo, leggermente brusco.

L’uomo senza orecchie uscì in un risolino che sembrava uno squittio. «Quali autorità? Questa è la Terra, amico! Noi andiamo e veniamo come ci pare».

In lui aumentò il senso di disagio. Era bastato il contatto di un attimo per rendergli immediatamente antipatici, quasi a prima vista, quei terrestri.

Un’altra voce, strana, fortemente accentata, disse: «Sbaglio, o lei ha detto che viene da una colonia?».

Ewing si voltò. Gli stava parlando uno dei terrestri «normali», un uomo alto circa un metro e sessanta, con un viso quadrato, forte, sopracciglia foltissime su occhi d’un nero profondo, e una testa tozza, quasi a forma di proiettile. La voce era incolore e orribile a udirsi.

«Sono di Corwin», gli rispose.

L’altro si accigliò, arcuando le enormi sopracciglia. «E dove sarebbe?», chiese.

«A sedici parsec da qui. Epsilon Ursae Majoris XII. Una colonia terrestre».

«E cosa ci fa sulla Terra?».

Il tono belligerante gli dava fastidio, ma si sforzò di mantenersi calmo. «Sono l’ambasciatore ufficialmente accreditato del mio pianeta presso il governo terrestre. Al momento sto cercando di mettermi in contatto con le autorità».

«Non esistono», rispose quell’individuo tozzo. «I terrestri hanno deciso di farne a meno un secolo fa all’incirca. Dicono che erano solo un fastidio». Sorrise con aria di disprezzo ai tre uomini decorati, che si erano allontanati e stavano mormorando nel loro linguaggio privato. «C’è ben poco che non dia fastidio ai terrestri».

Ewing era perplesso. «Ma non è della Terra anche lei? Insomma…».

«Io?». Dal petto dell’altro uscì una fragorosa risata sardonica. «Sul vostro pianeta siete proprio isolati, eh? Io sono un siriano. Vengo da Sirio IV, la più antica colonia terrestre. Beviamo qualcosa, che ne dice? Vorrei parlarle».

2

Senza troppo entusiasmo, Ewing seguì il siriano. Traversarono il terminal, raggiunsero una sala ristoro all’estremità della galleria. Non appena si furono accomodati a un tavolo traslucido, il siriano fissò Ewing negli occhi e disse: «Andiamo per ordine. Lei come si chiama?».

«Baird Ewing. E lei?».

«Rollun Firnik. Perché è venuto sulla Terra, Ewing?».

Le maniere di Firnik erano spicce, quasi offensive. Ewing giocherellò col bicchiere del liquore ambrato che gli aveva offerto il siriano, lo bevve distrattamente, lo rimise giù. «Gliel’ho già detto», rispose, calmo. «Sono l’ambasciatore del governo di Corwin presso il governo terrestre. Una cosa molto semplice».

«Davvero? Quand’è stata l’ultima volta che siete entrati in contatto col resto della galassia?».

«Cinquecento anni fa. Ma…».

«Cinquecento anni», ripeté Firnik, meditabondo. «E adesso decidete di riaprire i rapporti con la Terra». Scrutò Ewing, il mento appoggiato sui pugni. «Così, di colpo. Puf! Arriva l’ambasciatore. Non è solo perché avete voglia di fare amicizia, vero, Ewing? Qual è il motivo che sta dietro la sua visita?».

«Non sono al corrente delle informazioni che circolano in questo settore della galassia», disse Ewing. «Avete mai sentito parlare dei Klodni?».

«Klodni?» ripeté il siriano. «No. È un nome che non significa niente. È importante?».

«Le notizie non corrono, nella galassia», disse Ewing. «I Klodni sono una razza umanoide che si è evoluta nell’ammasso stellare di Andromeda. Li ho visti in solidografia. Sono creature repellenti, alte un metro e cinquanta all’incirca, con un’organizzazione sociale simile a quella delle formiche. Una flotta d’assalto dei Klodni è partita alla conquista».

Firnik alzò un sopracciglio. Non disse niente.

«Duemila navi dei Klodni sono entrate nella nostra galassia circa quattro anni fa. Sono atterrate su Barnholt, una colonia a una cinquantina di anni luce da Corwin, e hanno distrutto tutto. Sono ripartite dopo un anno. Sinora si sono avventati su quattro pianeti, e nessuno è riuscito a fermarli. Piombano su un pianeta e distruggono tutto ciò che vedono, poi passano al mondo successivo».

«E allora?».

«Abbiamo calcolato la loro rotta futura più probabile. Attaccheranno Corwin entro un decennio, anno più anno meno. Sappiamo già che non riusciremo a sconfiggerli. Non siamo una razza bellicosa. E non possiamo militarizzarci in meno di dieci anni e sperare di vincere». Ewing s’interruppe, bevve un po’ di liquore, che gli parve stranamente poco forte.

Poi proseguì: «Appena scoperta la natura della minaccia rappresentata dai Klodni, abbiamo inviato un messaggio alla Terra per spiegare la situazione e chiedere aiuto. Non c’è stata risposta, anche tenendo conto dell’intervallo di tempo necessario. Abbiamo inviato un secondo messaggio, e di nuovo nessuna risposta».