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La baciò, strinse a sé Blade. Sorrise a Davidson, a tutti gli altri. Poi cominciò a chiedersi perché mai fosse nato con quell’insieme di caratteristiche particolari che lo avevano portato, su quel mondo, quel giorno, a quel certo destino.

Era un eroe. Aveva posto fine alla minaccia che aveva già distrutto sei pianeti.

Corwin era salvo.

Lo portarono via, lo trascinarono all’Edificio Mondiale, lo fecero entrare nell’appartamento del presidente Davidson. Lì, mentre agenti del corpo della pace tenevano lontani i curiosi, Ewing dettò per la televisione un resoconto esatto di ciò che aveva fatto, sotto lo sguardo sorridente di innumerevoli amici.

Fuori, era tutto un impazzare di parate. Il rumore giungeva fin lì, a settantun piani al di sopra del livello del suolo. La cosa era tutt’altro che sorprendente: un mondo che per cinque anni era vissuto sotto l’incubo della morte si scopriva miracolosamente salvo. C’era poco da meravigliarsi se in quel momento saltavano tutti i freni emotivi.

Più tardi, verso sera, lo lasciarono tornare a casa. Non dormiva da più di trenta ore, e la stanchezza cominciava a farsi sentire.

Una fila interminabile di macchine del governo lo accompagnò fuori dalla capitale, fino al quartiere periferico dove abitava. Gli dissero che avrebbero lasciato guardie attorno alla casa, per assicurargli che nessuno lo importunasse. Ringraziò tutti, augurò la buonanotte, entrò in casa. La porta si chiuse alle sue spalle, tagliando via i rumori, le celebrazioni, le urla di gioia. Adesso era di nuovo il solito Baird Ewing, un uomo come tanti altri, al sicuro in casa propria. Si sentiva stanchissimo. Avvertiva un gran vuoto dentro di sé, quasi fosse un delinquente, non un eroe. E si vedeva.

Laira disse: «Questo viaggio non ti ha cambiato, vero?».

Lui socchiuse gli occhi. «Cosa vuoi dire?».

«Credevo che le nubi si sarebbero dissolte. Che tu fossi preoccupato per l’invasione e tutto il resto. Ma probabilmente mi sbagliavo. Adesso non c’è più pericolo, eppure qualcosa continua a roderti».

Cercò di ridere. «Laira, sei sovraffaticata. Hai avuto troppe preoccupazioni. Perché non vai a dormire?».

Lei scosse la testa. «No, Baird, dico sul serio. Ti conosco troppo bene. Vedo qualcosa nei tuoi occhi. Guai, chissà quali». Gli appoggiò le mani sui polsi, lo fissò negli occhi. «Baird, sulla Terra ti è successo qualcosa di cui non mi hai parlato. Sono tua moglie. Se c’è qualcosa, dovrei saperlo…».

«Non c’è niente! Niente». Ewing allontanò gli occhi. «Andiamo a letto, Laira. Sono esausto».

Ma a letto continuò a rigirarsi da una parte all’altra, e il sonno non giunse, nonostante la stanchezza.

Come faccio a tornare sulla Terra?, si chiese, disperato. La gente che amo vive qui. La Terra dovrà provvedere a se stessa da sola, e se non ci riesce, tanto peggio.

Era una risposta ben misera, e lo sapeva. Restò sveglio metà notte, riflettendo, agitandosi, coprendosi di sudore.

Pensò:

Tre uomini sono morti per permettere il mio ritorno su Corwin. Due si sono suicidati deliberatamente, volontariamente. Ho un debito con loro. Ho un debito con la Terra, che ha reso possibile la salvezza di Corwin.

Tre uomini sono morti per me. Ho il diritto di essere egoista?

Poi pensò:

Quando Laira mi ha sposato, era convinta di sposare il cittadino Baird Ewing, punto e basta. Non sposava un eroe, un salvatore di pianeti. Non è stata lei a chiedere al Consiglio che mi scegliesse per il viaggio sulla Terra. Però ha sopportato due anni di vedovanza perché sono stato scelto.

Come potrei dirle che me ne vado, che torno per sempre sulla Terra? Che lascio lei senza marito, e Blade senza padre? Non è giusto. Non posso farlo.

E poi pensò:

Deve esistere la possibilità di un compromesso. Un modo che mi permetta di onorare la memoria dei Baird Ewing morti e di essere leale con la mia famiglia. Deve esistere un compromesso.

In effetti, esisteva. La risposta gli giunse poco prima del mattino, chiara, cristallina. Non c’erano più dubbi, non c’era più ansietà. Adesso vedeva il sentiero da seguire. Con la risposta giunse un’ondata di pace, e finalmente si addormentò, sicuro di aver trovato la soluzione esatta.

Il presidente Davidson, a nome dell’intera popolazione di Corwin, andò a trovarlo il giorno dopo. Gli disse che come ricompensa poteva chiedere qualsiasi cosa, senza nessun limite.

Ewing sorrise. «Ho già tutto quello che voglio. Fama, denaro, una famiglia… Che altro può offrire la vita?».

Il presidente, che era tondo e grassoccio, ribatté: «Ma dev’esserci pure qualcosa…».

«C’è, c’è. Che ne dice di accordarmi il permesso di studiare liberamente i quaderni d’appunti che ho riportato dalla Terra? Siamo d’accordo?».

«Certo, se è questo che vuoi. Ma solo questo?».

«C’è un’altra cosa che vorrei. Due, anzi. La prima potrà sembrarle un po’ eccessiva. Voglio essere lasciato in pace. Voglio tornare nel mio anonimato e potermene restare qui. Niente medaglie, niente festeggiamenti pubblici, niente sfilate. Ho eseguito il lavoro che il Consiglio mi aveva chiesto, e ora voglio tornare alla mia solita esistenza.

«In quanto alla seconda cosa… Be’, per adesso non voglio essere preciso. Mettiamola così: quando sarà il momento, chiederò un favore al governo. Sarà un favore costoso, ma non in modo eccessivo. Le farò sapere cosa voglio quando e se la vorrò».

Poco per volta la sua notorietà si spense, ed Ewing, come desiderava, riprese una vita normale. La sua esistenza non sarebbe mai più stata quella di prima, ma a questo non c’era rimedio. Il Consiglio gli assegnò una pensione di 10.000 stellor l’anno, trasferibile ai suoi eredi. La loro generosità lo lasciò talmente stupito che fu costretto ad accettare.

Trascorse un mese. La tensione era scomparsa. Scoprì che suo figlio stava diventando un facsimile in miniatura del padre: alto, taciturno, con le stesse caratteristiche di coraggio, affidabilità, coscienza. Era sorprendente seguire lo sviluppo del ragazzo, vederlo diventare una personalità autonoma.

Peccato, pensava Ewing ogni volta che giocava col figlio o sfiorava il braccio della moglie, doverli lasciare proprio adesso. La cosa gli avrebbe procurato un dolore tremendo. Ma a loro sarebbe stata risparmiata ogni pena, se non altro.

Passò un altro mese. L’apparecchio che stava costruendo nel seminterrato, nel sacrosanto rifugio che né Blade né Laira avevano il diritto di visitare, era quasi pronto. Si avvicinava il momento.

In una giornata calda di mezza estate concluse le ultime prove. La macchina rispose perfettamente. Era giunto il momento.

Chiamò in casa con l’intercom. Laira stava leggendo nello studio; Blade guardava la televisione. «Blade? Laira?».

«Siamo qui, Baird. Cosa vuoi?», rispose Laira.

«Nei prossimi venti minuti circa condurrò esperimenti delicatissimi. Ogni variazione, ogni movimento in questa stanza potrebbero distruggere tutto il mio lavoro. Volete, per favore, essere tutti e due tanto gentili da non muovervi dal locale in cui vi trovate ora, finché non vi avviserò io?».

«Certo, tesoro».

Ewing sorrise e riappese il ricevitore.

Dalla cassetta degli attrezzi prese un robusto piede di porco e lo appoggiò alla parete, vicino alla porta del seminterrato. Guardò l’orologio. Erano le 14,03 e 30.

Riattraversò la stanza, toccò ancora qualcosa sull’apparecchio. Fissò l’orologio, lasciando trascorrere i minuti. Sei… Sette… Otto…

Alle 14,11 e 30 alzò un interruttore. La macchina ronzò un attimo e lo riportò all’indietro di dieci minuti nel tempo.

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