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La porta suonò di nuovo. Irritato, Ewing alzò gli occhi dal libro. Non aspettava visite e non aveva chiesto niente al personale dell’hotel.

«Chi è?».

«Signor Ewing?», disse una voce familiare. «Posso entrare? Mi piacerebbe parlarle. Ci siamo visti un attimo stamattina, giù al terminal».

Riconobbe la voce. Apparteneva al terrestre senza orecchie, con la tunica turchese, che gli era stato di così scarso aiuto. E cosa può volere da me?, si chiese.

«Va bene», rispose. «Entri pure».

La porta percepì l’ordine. Obbediente, si aprì. Il piccolo terrestre lanciò un’occhiata di scusa a Ewing, mormorò dolcemente un saluto, ed entrò.

3

Era minuscolo, delicato, fragile. Ewing pensò che un buon colpo di vento lo avrebbe ridotto a brandelli. Non era più alto di un metro e cinquanta, pallido, cereo in volto, con grandi occhi seri e labbra sottili, indecise. Il suo cranio a cupola era nudo, leggermente lucido. A intervalli regolari, nella testa erano inserite collanine di gioielli che tintinnavano a ogni suo movimento.

Avanzò verso Ewing con aria altera.

«Spero di non disturbarla nella sua intimità», disse, in un mezzo sospiro esitante.

«No. Niente affatto. Non vuole accomodarsi?».

«Preferirei restare in piedi», rispose il terrestre. «È nostro costume».

«Benissimo».

Ewing, fissando quel terrestre grottesco, provò uno strano senso di repulsione. Su Corwin, un uomo vestito da pagliaccio a quel modo sarebbe stato oggetto di ridicolo.

Il terrestre sorrise timidamente. «Mi chiamo Myreck l’Accademico», disse alla fine. «E lei è Baird Ewing, della colonia di Corwin».

«Esatto».

«Qualche ora fa ho avuto l’enorme fortuna d’incontrarla al terminal dello spazioporto. A quanto sembra, non le ho fatto una buona impressione. Lei mi avrà giudicato frivolo, forse, o magari del tutto irresponsabile. Di questo voglio chiederle scusa, colono Ewing. Lo avrei fatto subito, se non fosse stato per quella scimmia di siriano che l’ha distratta prima che io potessi parlare».

Sorpreso, Ewing notò che l’omino parlava senza quasi la minima traccia di accento terrestre. Fece una smorfia. Cosa voleva da lui quella ridicola creatura?

«Al contrario, Accademico Myreck, non c’è nessun bisogno di scusarsi. Io non giudico un individuo dalla prima impressione che ne ho, specialmente su un pianeta di cui mi sono estranei gli usi e le abitudini quotidiane».

«Un’ottima filosofia!». Per un attimo, sul viso calmo di Myreck passò un’ombra di tristezza. «Ma lei è teso, colono Ewing. Posso avere il privilegio di rilassarla?».

«Rilassarmi?».

«Eliminerò le sue tensioni nervose. È una tecnica che qui pratichiamo con una certa abilità. Posso?».

Dubbioso, Ewing chiese: «Di che si tratta, esattamente?».

«Basta un secondo di contatto fisico, nulla di più». Myreck uscì in un sorriso implorante. «Vedere un uomo così teso mi fa stare male. Mi provoca un dolore fisico».

«Lei ha stuzzicato la mia curiosità», disse Ewing. «Va bene, mi rilassi».

Myreck avanzò, mise dolcemente le mani attorno al collo di Ewing. Ewing, allarmato, si tese immediatamente. «Piano», intonò Myreck. «Rilassi i muscoli. Non abbia paura di me. Si rilassi».

Le sue dita sottili, piccole come quelle d’un bambino, affondarono all’improvviso nella carne alla base del cranio di Ewing. Lui avvertì un’esplosione lacerante di luce, l’interruzione totale delle percezioni sensoriali, per non più di un quindicesimo di secondo. Poi, di colpo, sentì che tutta la tensione scompariva. Deltoidi e trapezoidi si rilassarono così di colpo che gli parve di essere senza spalle e schiena. Il collo, perennemente in tensione, si ammorbidì. Lo stress, le tensioni accumulate in un anno di viaggio in animazione sospesa erano svanite.

«Una tecnica formidabile», disse dopo un po’.

«Manipoliamo il nesso neurale nel punto in cui midollo e colonna vertebrale si uniscono. Per mano di un dilettante, la cosa può essere fatale». Myreck sorrise. «Può essere fatale anche per mano di un esperto come me, ma solo se ne ha la precisa intenzione».

Ewing s’inumidì le labbra.

«Posso farle una domanda personale, Accademico Myreck?».

«Ma certo».

«I suoi vestiti, quei gioielli… Sono ornamenti diffusi su tutta la Terra, o si tratta solo di una moda che seguite qui?».

Myreck, con aria pensosa, intrecciò le dita ceree. «Diciamo che sono manifestazioni culturali. È difficile spiegarlo. Gli individui col mio tipo di personalità e i miei interessi si vestono così; altri in modo diverso, a seconda degli impulsi del momento. Il mio aspetto esteriore indica che sono uno studioso».

«Quindi "accademico" è il titolo che le compete?».

«Sì. Ed è anche il mio nome proprio. Faccio parte dell’Università di Scienze Astratte della città di Valloin».

«Debbo ammettere la mia ignoranza», confessò Ewing. «Non so niente della vostra università».

«Comprensibile. Noi rifuggiamo da ogni pubblicità». Gli occhi di Myreck, per un attimo, scrutarono tenacemente Ewing. «Il siriano che l’ha allontanata da noi… Posso chiederle come si chiama?».

«Rollun Firnik».

«Un individuo particolarmente pericoloso. Lo conosco di fama. Be’, veniamo al punto, colono Ewing. Acconsentirebbe a parlare davanti ai membri dell’Università di Scienze Astratte, diciamo all’inizio della prossima settimana?».

«Io? Non sono uno studioso, Accademico. Non saprei di cosa parlare».

«Lei viene da una colonia di cui tutti noi non sappiamo nulla. Rappresenta una preziosissima miniera di esperienze e informazioni».

«Ma non conosco la città», obiettò Ewing. «Non saprei nemmeno come fare per arrivare da voi».

«Penseremo noi a questo. La riunione è fissata per la sera di quatordì della settimana prossima. Verrà?».

Ewing rifletté un attimo. Era un’occasione buona come un’altra per cominciare a studiare da vicino la cultura terrestre. Gli occorreva una conoscenza generale il più ampia e profonda possibile, per riuscire a ottenere l’aiuto che avrebbe salvato il suo pianeta dalla distruzione dell’orda aliena.

Alzò gli occhi. «D’accordo. Allora è deciso per la sera di quatordì prossimo».

«Le siamo estremamente riconoscenti, colono Ewing».

Myreck fece un inchino. Indietreggiò verso la porta, continuando ad annuire e sorridere. Si fermò appena prima di schiacciare il pulsante d’apertura. «La salute sia con lei», disse. «Ha tutta la nostra gratitudine. Ci vediamo quatordì».

La porta si chiuse alle sue spalle.

Ewing restò un attimo a guardare nel vuoto. Poi ricordò i microfilm che aveva chiesto alla biblioteca dell’hotel, e tornò al visore.

Lesse per quasi un’ora, saltando qua e là. La sua velocità di lettura era altissima, grazie alle tecniche di apprendimento mnemonico studiate alla grande università di Corwin. La sua mente organizzava i dati mentre gli occhi leggevano, inquadrando i fatti in schemi precisi, nitidi. Entro un’ora, aveva un’idea più che esatta dell’andamento della storia terrestre nei milletrecento anni dal primo volo interstellare.

All’inizio, c’era stata una spinta esplosiva verso le stelle. Nel 2573 era stato colonizzato il primo pianeta, Sirio: sessantadue uomini e donne pieni di coraggio. Le altre colonie erano seguite subito, a ritmo frenetico. La Terra, sovrappopolata, si liberava di figli e figlie inviandoli nello spazio a grandi gruppi.

Per tutta la seconda metà del terzo millennio, il tono storico prevalente era quello di un’eccitata frenesia. Gli annali registravano colonia su colonia.

Il cielo era pieno di mondi. Il diciassettesimo sistema planetario di Aldeberan ospitava otto pianeti di tipo terrestre e quindi adatti alla colonizzazione. Il sistema binario di Albireo, quattro. Ewing sfogliò in fretta le pagine dense di nomi, riconobbe con un brivido il nome di Blade Corwin, che nel 2856 aveva creato una colonia sul dodicesimo pianeta di Epsilon Ursae Majoris.