Sei mesi di governo avevano lasciato il segno su di lui. Aveva la faccia grigia e la palpebra sinistra abbassata, probabilmente per la stanchezza. Teneva le labbra strette e stava rigido con una spalla più alta dell’altra. Benché ci separassero soltanto due anni, mi sentivo un ragazzo di fronte a lui e mi sembrava impossibile che le preoccupazioni avessero potuto segnare in quel modo il volto di un uomo così giovane. Sembrava che fossero passati secoli da quando Stirron e io ridevamo insieme nelle nostre camere da letto, sussurrando tutte le parole proibite e spogliandoci per confrontare i nostri corpi di adolescenti che cominciavano a maturare. Adesso mio fratello era diventato re e io gli offrivo formale obbedienza, incrociando le braccia sul petto, inginocchiandomi e mormorando a capo chino: — Lunga vita a te, Eptarca, signore.
Mio fratello era abbastanza uomo da accettare il mio omaggio formale con un sorriso fraterno. Accolse l’augurio col gesto tradizionale, certo, le braccia levate e le palme volte all’infuori, ma subito dopo lo mutò in un abbraccio. Attraversò rapidamente la sala e mi strinse a sé. C’era qualcosa di artificioso, vero, nel suo gesto, come se fosse stato lì a pensare un modo per accogliere affettuosamente suo fratello. Mi lasciò andare subito. Scivolò verso la finestra e guardando fuori pronunciò le sue prime parole: — Una giornata bestiale. Un anno orribile.
— La corona è pesante, Eptarca?
— Hai il permesso di chiamare tuo fratello col suo nome.
— Si vede che sei sfinito, Stirron. Forse prendi troppo a cuore i problemi di Salla.
— La gente ha fame — rispose, — ti sembra una cosa da prendere alla leggera?
— La gente ha sempre avuto fame, anno dopo anno, ma se l’Eptarca si consuma per preoccuparsi di loro…
— Basta, Kinnall. Esageri. — Non c’era nulla di fraterno nel suo tono, adesso; non riusciva a nascondere la sua irritazione. Era seccato del fatto che io avessi notato la sua stanchezza, anche se era stato proprio lui ad iniziare il discorso lamentandosi. La conversazione non aveva più un tono intimo. Tutto sommato, la condizione dei nervi di Stirron non mi riguardava: non era compito mio confortarlo, per questo c’era il suo fratello di legame. Il mio tentativo di essere gentile era stato inopportuno.
— Cosa sei venuto a cercare, qui? — mi chiese con asprezza.
— L’autorizzazione dell’Eptarca a lasciare la capitale.
Si allontanò dalla finestra e mi guardò fissamente. Lo sguardo che fino a quel momento era rimasto vuoto e spento s’animò d’un tratto. Cominciò a roteare follemente gli occhi.
— Partire? Vuoi partire? E per dove?
— Si vorrebbe accompagnare il proprio fratello di legame Noim alla frontiera settentrionale — risposi con tutta la naturalezza di cui ero capace. — Noim si reca in visita al quartier generale di suo padre, il generale Luinn Condorit, che non ha più visto, quest’anno, dal giorno dell’incoronazione di Vostra Altezza, e ha chiesto che in nome dell’amicizia, lo si accompagni nel viaggio.
— Quando vorresti partire?
— Fra tre giorni, se così piace all’Eptarca.
— E quanto ti tratterresti fuori?
Stirron quasi abbaiava le domande.
— Fin quando comincerà a cadere la prima neve.
— Troppo, troppo.
— Si può rimanere un po’ meno — dissi.
— Devi proprio andare, comunque?
Il mio ginocchio destro cominciava a tremare. Mi sforzai di rimanere calmo. — Stirron, tieni conto del fatto che non ci si è allontanati da Salla nemmeno per un giorno da quando sei salito sul trono, e che non si può permettere che un fratello di legame attraversi le colline settentrionali senza il conforto di una compagnia amica.
— E tu ricordati di essere l’erede della Prima Eptarchia di Salla e che, se qualche disgrazia si abbatte su tuo fratello mentre tu sei lontano, la nostra dinastia è perduta.
La freddezza della sua voce e la durezza con cui mi aveva interrogato mi gettarono nel panico. Si sarebbe opposto alla mia partenza? La mia mente febbricitante enumerò almeno una dozzina di motivi per la sua ostilità. Era al corrente del fatto che avevo trasferito i miei capitali, ed era giunto alla conclusione che stavo per fuggire a Glin; oppure aveva pensato che Noim, suo padre ed io, sostenuti dalle truppe del generale, volessimo organizzare nel Nord una rivolta per deporre lui e mettere me sul trono; oppure era già arrivato alla conclusione che la cosa migliore da farsi era arrestarmi e farmi scomparire, e non voleva che io gli sfuggissi allontanandomi da Salla; oppure… ma è inutile continuare. La gente di Borthan è sospettosa, e nessuno è meno pronto a prestare fiducia agli altri di chi porta la corona. Se Stirron non mi avesse concesso il permesso di partire, e sembrava proprio che non l’avrebbe fatto, mi sarei trovato costretto a fuggire, e non sarebbe stata una cosa facile.
Dissi: — Non è probabile che ti capiti qualcosa, Stirron; ma se anche fosse, non sarebbe certo un’impresa impossibile ritornare dal Nord. Temi davvero che qualcuno cerchi di usurpare il trono?
— Si teme tutto, Kinnall, e si lascia al caso un margine minimo.
Mi tenne una lezione sulle precauzioni che era indispensabile prendere, sulle ambizioni di coloro che circondavano il trono, mi parlò di alcuni gentiluomini di corte, che io consideravo i pilastri del regno, come di possibili traditori. Il suo discorso sulle incertezze che lo tormentavano andava ben al di là dei limiti imposti dal Comandamento e, mentre parlava, vidi con meraviglia che uomo tormentato e terrorizzato era diventato mio fratello in quel pur breve periodo di governo; mi resi conto, inoltre, che molto difficilmente mi avrebbe concesso il permesso di partire. Continuava a parlare, a parlare, si agitava, tormentava i suoi talismani d’autorità, sollevava continuamente lo scettro dal vecchio tavolo di legno su cui era appoggiato, andava su e giù dalla finestra, cambiava l’intonazione della voce, ora alta, ora grave, come se cercasse quella più adatta ad un Eptarca. Avevo paura per lui. Era anche lui un uomo di notevole corporatura, e allora era più forte e più massiccio di me. Per tutta la vita l’avevo adorato, l’avevo preso a modello; e adesso era lì, davanti a me, distrutto dal terrore e, quel che era peggio, me lo confessava. Commettere un peccato del genere, era addirittura impensabile. L’avevano ridotto in quello stato i pochi mesi in cui aveva dovuto reggere il supremo comando? Era la solitudine dell’Eptarchia a pesargli tanto? Su Borthan si nasce, si vive, si muore soli; perché mai portare una corona avrebbe dovuto essere più gravoso del sopportare le sofferenze che infliggiamo a noi stessi ogni giorno? Stirron mi parlò di complotti per assassinarlo, e di fermenti rivoluzionari tra i contadini che si stringevano intorno alla città, insinuò che la morte di nostro padre non era stata accidentale. Cercai di convincermi che si poteva anche addestrare un uccello-spada ad uccidere proprio una certa persona in un gruppo di tredici; ma era un concetto molto difficile da mandar giù. Sembrava che le responsabilità del trono avessero fatto diventare matto Stirron. Mi ricordavo perfettamente di quando mio padre aveva fatto rinchiudere in una segreta un certo duca che gli era dispiaciuto e per sei mesi lo aveva fatto torturare ogni giorno che il sole nasceva. Era entrato in prigione forte e vigoroso e quando ne uscì era talmente malridotto che si sporcava gli abiti con i suoi stessi escrementi senza accorgersene. Quanto ci avrebbe messo Stirron per arrivare a quel punto? Pensai che forse non sarebbe stato un male se mi avesse negato il permesso di partire, perché, se avesse avuto un tracollo, sarebbe stato opportuno che io fossi lì in città, pronto a prendere il suo posto.
La conclusione di quel discorso incoerente mi meravigliò: Stirron attraversò rapidamente la stanza, si avvicinò ad un’alcova da cui pendevano delle catenelle d’argento, ne afferrò una manciata, ne svelse una dozzina, le lanciò per la stanza e ruotò su se stesso, mi venne di faccia e gridò con voce roca: — Kinnall, giurami che tornerai in tempo per le nozze reali!