Redpath, deciso a non lasciarsi distrarre da indizi banali, s’incamminò verso l’incrocio più vicino per vedere la targa coi nome della via. Superò tre macchine, e all’improvviso si accorse che tutte e tre: erano di forma e dimensioni insolite.
“Strano. Tre macchine americane in una sola strada. Forse da queste parti c’è un club dl amici delle auto straniere…”
Lungo lo spazio che lo separava dall’incrocio erano parcheggiate altre quattro macchine, e lui notò subito che erano tutte americane. Veicoli enormi, spaziosi, che solo gli eroi dei telefilm come Cannon, Rockford e Kojak usavano. Le targhe delle prime tre erano dell’Illinois; la quarta dello Iowa. Perplesso, intontito dal caldo e dalla luce intensa, Redpath arrivò all’incrocio e guardò la targa della via. C’era scritto: 13 AVE S.E.
“Un altro fatto strano. Sembra quasi…”
Redpath smise improvvisamente di pensare quando guardò con maggiore attenzione l’incrocio. La via che aveva davanti era una strada di grande traffico che svaniva in lontananza, perfettamente rettilinea. In fondo, lontana, una montagna bluastra coperta di neve, assolutamente diversa dalle montagne inglesi. E lungo la via si muovevano file apparentemente interminabili di autobus, automobili e camion, tutti di tipo americano, tutti che viaggiavano sul lato destro della carreggiata.
“Sembra quasi di essere…”
L’insegna sopra il negozio all’angolo diceva “Gruber’s Delicatessen”, e la vetrina era coperta quasi completamente da annunci di offerte speciali scritti a mano. I prezzi erano in dollari e cent. Vicino al negozio c’era un bar, “Pete’s Palace”, con la vetrina coperta per metà da un tendaggio e una piccola insegna al neon della Budweiser. Gli uomini e le donne che gli passavano accanto indossavano abiti diversi da quelli che era abituato a vedere a Calbridge o a Londra; non troppo diversi, ma inconfondibilmente diversi.
“Sembra quasi di essere negli Stati Uniti!”
Redpath premette le palme delle mani contro le tempie e cominciò a dondolare la testa da una parte all’altra, fissando con occhi spiritati quella scena incomprensibile. Una vecchia signora vestita di giallo gli si fermò vicino, lo scrutò sospettosa per qualche secondo, poi se ne andò borbottando sottovoce.
— Posso parlarvi, per favore? — disse Redpath, seguendola. Lei si mise a correre senza voltarsi a guardarlo. Redpath accelerò leggermente, poi si accorse che un uomo grassoccio, vestito di grigio, lo stava fissando. Era appoggiato alla vetrina del bar. Redpath cambiò direzione, si avvicinò all’uomo, che era sulla cinquantina e aveva una barba bianca e nera di forma irregolare. L’uomo lo fissò, tra l’inquieto e il divertito.
— Dove siamo? Che posto è questo? — chiese Redpath.
— Non lo sai? — L’uomo parlava con un accento che gli parve americano.
— Sentite, mi occorre aiuto… Non potete dirmi dove siamo?
— Ti occorre aiuto, è maledettamente vero. — L’uomo fece un sorriso d’intesa e ammiccò. — Di cosa ti sei imbottito, fra parentesi?
— Mi sono perso, è tutto. Dove sono? — Redpath abbassò le mani, le chiuse a pugno.
L’uomo smise di sorridere. — Gilpinston.
— Gilpinston cosa? Gilpinston dove?
In quel momento uscì dal bar un uomo più alto e più giovane, col giornale piegato sotto il braccio. Si affiancò all’altro, incuriosito. La sua presenza parve ringalluzzire l’uomo grasso.
— Perché vieni a scocciare proprio me? Trovati qualcun altro.
— Vi ho solo chiesto… — Redpath tirò un sospiro, si voltò verso l’uomo più giovane, si costrinse a sorridere. — Vi spiace se do un’occhiata al giornale”? Solamente un attimo.
— Sparisci. — L’uomo più giovane girò la schiena a Redpath e attaccò a discutere di corse di cavalli con l’altro. Redpath si sentì invaso dalla rabbia, dalla frustrazione, come se nel suo cervello si fosse accesa una fornace. Bestemmiò e afferrò il giornale nel preciso istante in cui il suo proprietario aveva deciso di toglierlo da sotto il braccio. Seguì, per qualche secondo, un assurdo tira-e-molla. La situazione mutò quando l’uomo grasso, furioso e indignato, colpì Redpath con un calcio al basso ventre. Redpath, paralizzato dal dolore improvviso, si aggrappò al giornale. Il giornale si strappò e lui cadde in ginocchio.
Alcuni passanti si fermarono a guardare che cosa stava succedendo. L’uomo grasso, assumendo l’atteggiamento di un osservatore estraneo, indietreggiò di qualche passo con le mani in tasca. Redpath si trovò a guardare un mondo distorto dalle lacrime e popolato di giganti malvagi.
— Cos’ha quel tipo? — chiese un uomo. — Sta male?
— Secondo me è pieno di roba fino al collo.
— È inglese? Ehi, non sarà mica uno di quei tali che sono venuti ad abitare nella casa dei Rodgers dietro l’angolo, eh?
— Chiamate la polizia.
— No… — Redpath puntò lo sguardo in direzione dell’ultimo uomo che aveva parlato, per assicurargli che l’intervento della polizia non era necessario; ma, per uno scherzo di prospettiva, vide una figura più lontana e più familiare, vestita di una tuta marrone. L’uomo, che aveva mento e mani enormi, se ne stava all’angolo della strada, ben lontano dal gruppetto di spettatori; però guardava in direzione di Redpath, e il suo atteggiamento lasciava intuire un’ansietà furtiva.
— Albert? — Redpath si tirò in piedi e si fece strada fra la barricata di corpi. L’angolo della strada era deserto. Corse all’incrocio, guardò nella via da cui era giunto poco tempo prima, aspettandosi di vedere un uomo in tuta marrone che fuggiva. Ma la strada era deserta, a parte un gruppo di bambini assorti nei loro giochi. Redpath si sforzò di pensare, sommerso com’era da un misto di dolore, nausea e sorpresa. Era possibile che Albert, ammesso che si trattasse proprio di Albert, fosse arrivato alla casa tanto in fretta? Che avesse percorso un centinaio di metri nel tempo che lui aveva impiegato per percorrerne una quindicina?
— Dove vai, amico? — gridò qualcuno alle sue spalle.
— Sto bene — farfugliò Redpath. — Va tutto benissimo. — Strinse le mani sul basso ventre e si mise a correre verso la casa. Il marciapiede battuto dal sole sembrava rollare come il ponte di una nave. Redpath aveva la folle impressione di essere seguito. Arrivò alla casa in cui si era svegliato, la riconobbe quasi istintivamente, salì gli scalini di corsa. La porta era leggermente aperta. Corse nell’atrio e mise il catenaccio alla porta, respirando affannosamente. La casa era silenziosa e deserta come prima.
— Albert! — La sua voce era quella di un pazzo, di uno sconosciuto. — Dove sei, bastardo?
Redpath si trascinò lungo la parete, raggiunse la prima porta interna, l’aprì: il soggiorno era deserto, le poltrone imbottite dormivano in un silenzio inquietante. Anche l’altra stanza, dotata d’un tavolo lungo e di sedie con le gambe all’insù, era deserta. Redpath si fermò, cercò di calmare l’affanno. Dal punto in cui si trovava riusciva a vedere che in cucina non c’era nessuno, e in quanto alla cantina… be’, in cantina c’era già stato, e non aveva intenzione di tornarci. Il dolore al basso ventre diventava sempre più forte, minacciava di travolgerlo. Corse fuori, continuando a stringersi i genitali con le mani, raggiunse le scale e salì… Salì per un tempo lunghissimo, fino al pianerottolo del primo piano. La parte di pianerottolo che girava attorno al retro della casa aveva una porta sulla destra e due sulla sinistra. La porta a destra era quella che, nel suo incubo, portava alla camera da letto di Albert. La spalancò e scrutò, stanchissimo, la stanza vuota, col letto su cui nessuno aveva dormito. Uscì, aprì la prima porta sul lato opposto del pianerottolo. Dava sulla stanza più piccola di tutta la casa; conteneva solo un tavolo da toeletta. Barcollando fece tre passi, arrivò all’ultima porta, la spalancò: era il bagno. Si trovò a guardare nella vasca. Conteneva due corpi umani orrendamente neri; uno, forse, era il corpo di una donna. E sembrava fossero stati scorticati…