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“Oh, no!

“Oh, Cristo… NO!”

Il mondo scomparve, scivolò via su un’onda veloce, ripugnante, orribile, di forza irresistibile. Redpath cadde a terra di colpo, perdendo coscienza lentamente. L’ultima cosa che vide fu la finestra in fondo al pianerottolo, scintillante di luce. Sui vetri, un giglio giallo dispiegava i petali, come un uccello da preda sul punto di spiccare il volo. Lui sbatté gli occhi, terrorizzato, incapace di pensare, e scoprì che sul pianerottolo c’erano altre persone, che i loro corpi bloccavano la luce.

Erano tutti lì con lui, gli sorridevano.

Betty York, la Regina degli Zingari; Albert, strano e incomprensibile; la vecchia signorina Connie; e Wilbur Tennent, lo scommettitore grasso e benevolo.

Erano tutti e quattro con lui.

Sorridenti.

Redpath chiuse gli occhi e cercò di morire.

4

— Sei sicura di non volere un passaggio? — Henry Nevison aprì la portiera della sua Triumph verde, esitò un attimo prima di salire. — Leicester Road è praticamente sul mio percorso verso casa.

Leila Mostyn scosse la testa. — Grazie, Henry, ma devo fare un salto in un paio di negozi. L’autobus va benissimo.

— Pensi che per domattina ti avranno riparato la macchina?

— Spero di sì. Ho chiamato il mio elettrauto. Ha detto che faceva un salto dopo pranzo a cambiare la batteria.

— Bene. Comunque se hai problemi telefonami, e domattina passo io a prenderti.

— Grazie. — Leila restò a guardare Nevison che si infilava in macchina con una serie di contorcimenti faticosi. Chissà perché un uomo della sua età e del suo calibro aveva scelto un’auto così scomoda. Persino lei, tanto più giovane di Nevison e più bassa di una decina di centimetri, aveva trovato tutt’altro che facile salire e scendere dalla Triumph con disinvoltura. Henry le aveva prestato la macchina a mezzogiorno, visto che doveva tornare a casa a prendere i diagrammi di riscontro semestrale; e guidare la Triumph le era sembrato faticoso, le aveva fatto rimpiangere la comodità della sua mini. La spiegazione più ovvia era che Henry Nevison cercasse di ritrovare la gioventù perduta; però lei non si fidava di quelle analisi psicologiche sommarie, buone solo per i rotocalchi. Gli esseri umani sono troppo complicati per lasciarsi inquadrare in teorie così semplicistiche; ad esempio, bastava prendere John Redpath…

Al pensiero di Redpath Leila si guardò attorno, vide che la sua bicicletta non era al solito posto. Doveva essersene andato presto. Certo che quel mattino si era lasciata trascinare dalle sue provocazioni. Le risposte che gli aveva dato davanti a Marge Rawlings erano imperdonabili, degne di una ragazzina stupida; ma quello era uno dei suoi guai con John Redpath: lui era talmente vulnerabile che il semplice fatto di stargli vicino creava vuoti nelle difese psicologiche di Leila.

La macchina di Nevison le passò accanto. Leila agitò le mani, in risposta al suo saluto alquanto enfatico, e si avviò verso l’uscita. Il cancello era appena stato verniciato di verde, le decorazioni in ferro battuto erano dorate, e verso il tramonto i raggi del sole le facevano sembrare veramente d’oro. Guardandole, Leila provò una punta di nostalgia per i giorni della sua infanzia, così privi di complicazioni, quando era sempre estate o Natale, quando una passeggiata al parco diventava una spedizione all’altro capo di un mondo enorme, e ritornando a casa si era accolti dal profumo delizioso dei dolci appena cotti e della lavanda. In quei giorni non esistevano problemi d’indipendenza, di carriera, di sesso…

“Ridicolo” pensò, e per poco non lo disse ad alta voce. “lo non ho problemi di sesso, e non sarà certo un ciclista con la faccia piena di lentiggini a crearmeli.”

Si concentrò sulle spese che doveva fare. Attraversò la strada, camminò per cinque minuti, entrò in una piccola cooperativa dove comperò pane, yogurt, cipolline e candeggina. Un altro breve tragitto la portò all’incrocio con una delle strade principali di Calbridge. Il primo autobus per Leicester Road che arrivò era quasi vuoto (era ancora un po’ troppo presto per l’esodo generale dagli uffici). Si sedette vicino all’uscita. Case, alberi e strade cominciarono a muoversi sempre più in fretta dietro i finestrini, e lei si immerse nelle sue riflessioni.

Lasciarsi coinvolgere nella relazione con John era stato uno sbaglio fin dall’inizio, perché lui era (con tutta la dolcezza possibile, e senza che ne avesse colpa, e senza che lei volesse rimproverargli qualcosa) un perdente nato. Si metteva nell’atteggiamento del perdente, quasi spinto da un istinto suicida, e cercava di essere tutto quello che non sarebbe mai stato. Voleva essere sofisticato mentre era irrimediabilmente ingenuo, cosmopolita mentre non era che un provinciale; insomma, per usare una delle metafore cinematografiche che lui amava tanto, voleva essere un Bogart mentre era un Bambi. Non aveva denaro, non aveva prospettive; possedeva due cose sole, e tutti sanno che il coraggio e il senso dell’umorismo non bastano. Discorso chiuso.

Leila scese alla sua fermata, s’incamminò verso casa, con la borsa della spesa che le pendeva lungo un fianco. Sotto il tergicristalli della mini era infilato il conto dell’elettrauto. Lo prese, lo infilò nella tasca della giacca di cardigan e cominciò a salire le scale. Dentro faceva caldo come in una serra. Appena messo il latte in frigorifero, si sarebbe buttata subito sotto la doccia. Arrivata al pianerottolo del suo appartamento si immobilizzò davanti alla porta: nella serratura era infilata la seconda chiave.

Una visita di cortesia o un furto? Un amico o un nemico?

Appoggiò la borsa sul davanzale accanto alla porta, alzò il vaso di fiori e tastò sotto. La chiave era scomparsa, ma a pensarci bene quell’informazione non serviva a molto. Impossibile sapere se a prendere la chiave era stato un ladro intelligente o qualcuno che sapeva della sua esistenza; e impossibile sapere se il visitatore se n’era già andato oppure l’aspettava dentro.

Leila girò la chiave, aprì. Rimase un attimo sulla soglia, in ascolto, poi entrò con cautela in corridoio. Non si udiva nessun rumore. Sempre più sicura di sé, guardò in soggiorno, vide che non mancava niente e che la stanza non era sottosopra; poi controllò gli altri locali. L’appartamento era deserto. Probabilmente uno dei suoi amici, che erano una mezza dozzina, le aveva fatto visita e se n’era andato scordandosi di rimettere a posto la chiave.

Tornò sul pianerottolo, prese la borsa della spesa e la portò in cucina. Poi, prima di spogliarsi, fece il giro di tutte le finestre, sistemò le tapparelle in modo che la luce esterna entrasse, ma che da fuori non la potessero vedere. La finestra del soggiorno fu l’ultima. Leila si girò, cominciò a togliersi la giacca, e restò come paralizzata quando guardò il divano. Un cuscino era stato ridotto a brandelli dal coltello che ancora ne sporgeva; e, per aggiungere un ultimo tocco macabro, a batuffoli di cotone che fuoriuscivano come interiora erano macchiati di sangue.

Leila si portò le mani alla bocca, indietreggiò, fece il giro della stanza fino a trovarsi davanti alla cucina. Adesso i suoi sensi erano eccitati, più attenti. Quando guardò in cucina vide subito le tracce di sangue sul lavandino e sul rotolo di carta montato sulla parete. Traversò la cucina, tenendosi al centro della stanza come se temesse di contaminarsi toccando qualcosa, arrivò al telefono dell’entrata. Da buona matematica, aveva un’ottima memoria per i numeri. Riuscì a chiamare la polizia di Calbridge senza consultare l’elenco.