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— Ci pensa la signorina Connie. — Betty lanciò un’occhiata all’anziana signorina, che fece un cenno quasi impercettibile, si alzò e uscì senza dire una parola. Redpath ebbe di nuovo l’impressione che nella vecchietta ci fosse qualcosa di sbagliato, e questa volta capì che la signorina Connie, nonostante l’aria fragile e curva, si muoveva con l’agilità di una ballerina. Era un fatto alquanto strano.

— Immagino che vorrai fare il bagno — disse Betty, andando verso la porta.

Davanti agli occhi di Redpath balenò, per un attimo, la visione di due corpi neri, scorticati, in una vasca di porcellana. — Non vorrei darti troppo…

— Faccio scendere l’acqua e ti preparo l’accappatoio. Appena hai finito vieni giù, tesoro. — Betty uscì dalla stanza. Redpath si mise in ascolto. Sentì i suoi piedi che scendevano gli scalini. Un minuto dopo, in basso cominciò a scorrere l’acqua. Rotolò giù dal letto, e si alzò in piedi. Sentiva un dolore tremendo al basso ventre. Alla luce artificiale del lampadario, la sua camera era più triste e anonima che mai. Si portò sotto la finestra, scostò le tendine e guardò nelle tenebre. Le case attorno formavano un muro alto, buio, squarciato da un’apertura; e in quell’apertura intravedeva le luci di Calbridge, luminose, fosforescenti, lontane nel tempo e nello spazio come lo sfondo di un dipinto di Leonardo.

Prigioniero di una tristezza sconfinata, Redpath richiuse le tendine e scese al piano di sotto. Adesso era tutto tranquillo, in quel buio anonimo. Trovò subito il bagno, che in effetti era la prima porta a sinistra sul pianerottolo del primo piano. Gli avevano lasciato accesa la luce. Entrò, chiuse la porta col catenaccio traballante. L’acqua nella vasca era leggermente giallastra, però calda e abbondante; e vestiti puliti lo aspettavano su un sedile di giunco.

Redpath guardò i calzoni: erano color marrone rossiccio, nuovissimi, con l’etichetta del negozio Marks Spencer ancora attaccata alla cintura. Per di più, l’etichetta lo informò che i calzoni erano esattamente della taglia che aveva chiesto. Poi c’era una camicia sportiva, biancheria e calze; e tutto aveva ancora l’etichetta, tutto era nuovissimo.

“Come diavolo…?” Fissò i vestiti, incredulo. “La camera della signorina Connie dev’essere una specie di supermarket!”

Meccanicamente, cercando di soffocare la sensazione d’irrealtà che lo aveva assalito di nuovo, Redpath fece il bagno e indossò i vestiti nuovi. Poi salì in camera, a depositare i panni sporchi. Dopo un attimo d’esitazione scese a pianterreno. Sotto la porta del soggiorno s’intravedeva una linea sottile di luce. Si diresse verso la porta, ma prima che lui riuscisse a toccare la maniglia la porta si spalancò. Redpath si trovò davanti la figura enorme, appariscente, di Wilbur Tennent.

— Vieni, John, vieni — disse Tennent, espansivo. — Non fare cerimonie. Adesso sei di famiglia.

— Grazie — mormorò Redpath, avanzando nella stanza. Seduti attorno alla stufa a gas c’erano Betty York, la signorina Connie che lavorava a maglia, e la figura sproporzionata di Albert, ancora vestito della tuta marrone, con una tazza di tè fra le mani enormi. Al centro del gruppo c’era un carrello con panini imbottiti e dolci. Redpath notò che gli sorridevano tutti, e una paura nuova cominciò a destarsi in lui. Un serpente si mosse nel suo cervello.

“È quasi orribile quanto l’incubo. Pensano che io sia come loro, ma è impossibile. O è possibile? È possibile?”

— Prima di sederti, vecchio mio, prendi questi — disse Tennent, e gli mise in mano un mucchietto di carta.

— Cosa? — Redpath abbassò gli occhi: aveva in mano qualche banconota. — Non…

— È la vincita del tuo primo giorno di scommesse, vecchio mio. Te l’avevo detto che Swordsmith avrebbe vinto. — Tennent lo prese per il braccio, glielo strinse allegramente. — Te l’avevo detto che ad avere fiducia in me non ci si può sbagliare, e siamo appena all’inizio. Per domani ho messo gli occhi su un cavallo che si chiama Parsnip Bridge, e stai sicuro che…

— Lascialo in pace — ordinò seccamente Betty York. — Non è stato bene.

— Stavo solo cercando di…

— I cavalli non gli interessano. Vieni a sederti qui, tesoro. — Betty batté la mano sul sedile della poltrona vuota, vicino alla sua. Redpath mormorò una scusa a Tennent, andò a sedersi dove Betty gli aveva ordinato, si lasciò servire tè e sandwich e intanto quella sensazione di paura continuava ad agitarsi dentro di lui. Il serpente cresceva.

— Non è delizioso? — disse la signorina Connie. Era la prima volta che Redpath la sentiva parlare. Aveva una voce affettata, stridula.

— Proprio delizioso — dissero Albert e Betty York, all’unisono.

— Delizioso, sì. — La signorina Connie annuì e si mise a sferruzzare più in fretta, contenta. Redpath posò gli occhi sul lavoro che la vecchietta stava facendo. In un primo momento pensò che fosse una sciarpa grigia, ma si accorse subito che gli orli erano estremamente irregolari, come se la signorina Connie non stesse attenta a dare sempre lo stesso numero di punti. E poi, per essere una sciarpa era lunghissima: partiva dalla poltrona e arrivava fino al pavimento, dove si perdeva fra le ombre in un mucchio confuso. La signorina Connie intercettò il suo sguardo e gli sorrise mettendo in mostra i denti. Redpath guardò da un’altra parte.

“Forse non sta facendo niente di particolare. Non è mica necessario fare sempre qualcosa. Forse lavora a maglia e basta, perché le piace.”

Per un po’ Redpath si concentrò sul tè e sui panini di carne di maiale in scatola, ricordando all’improvviso che non mangiava più dal mattino. Per alcuni minuti continuò a sentirsi ossessionato dall’idea di aver dimenticato qualcosa d’importante; poi i suoi pensieri vennero distratti dall’odore del fumo di sigaretta. Era un fumo molto aromatico, quindi probabilmente la sigaretta era francese o americana. Si guardò attorno. Albert aveva finito il tè, stava fumando, e da una tasca della tuta spuntava un pacchetto di Lucky Strike. Redpath sapeva che in centro c’era una tabaccheria che vendeva sigarette e tabacchi americani, ma pensava che fosse roba molto costosa. Una scelta davvero insolita per un uomo come Albert, che sembrava il tipico artigiano della zona delle Quattro Città.

“Prima devo essermi accorto che aveva sigarette americane” rifletté “e il mio inconscio deve aver dato molta importanza a quel particolare. Ecco perché ho sognato Albert in quella città americana. È così che il cervello costruisce le illusioni più pazzesche.”

I minuti passavano e la stanza era immersa nel silenzio, a parte il tintinnio degli aghi della signorina Connie e gli scoppiettii occasionali del fuoco. Le tendine tirate riposavano tranquille sul bovindo. Redpath, intrappolato come un insetto nell’ambra, passò mentalmente da un livello di paura e disperazione a un altro. Sapeva di aver ucciso un essere umano, Leila; e quel fatto restava sempre dietro i suoi occhi, mostruosamente reale, un cancro terribile che nessuna operazione chirurgica avrebbe mai asportato. Di tanto in tanto i suoi pensieri mutavano direzione, si concentravano per un po’ su altre cose (facce scorticate che grondavano sangue, una poltiglia organica che strisciava su mattonelle trasparenti, cadaveri anneriti simili ai più raccapriccianti calchi di Pompei, cantine con le pareti che si protendevano verso di lui agitando i tentacoli, tutti incubi); e allora cercava di fuggire da quei ricordi, e fuggendo incontrava lo spettro più terrificante, lo spettro di Leila e dei suoi occhi diventati così vitrei; e la ruota dell’orrore ricominciava a girare. Quel tumulto di rimorsi e paure lo svuotò di ogni energia. Scoprì di avere sonno, nonostante avesse dormito qualche ora, nonostante il pericolo di nuovi incubi. Arrendendosi al tepore avvolgente della stanza, chiuse gli occhi un attimo. Quando li riaprì, Wilbur Tennent era chino verso di lui, gli puntava contro l’indice con un’aria allegra e accusatrice al tempo stesso.