— Sììììììììì — cantilenava Tennent con tono stridulo, gli occhi fissi su Redpath — sììì… Bisogna arrivare fino in fondo alla strada, sììì… Fino in fondo alla strada.
Redpath lo fissò, paralizzato.
— Ottima idea — disse Betty, e cominciò a cantare. — Anche se la strada è lunga il tuo cuore non si arrenda tieni duro fino in fondo… Perché non canti, tesoro? — Lanciò un’occhiata interrogativa a Redpath.
— Io… — Guardò la signorina Connie e Albert. Tutti e due cantavano quasi impercettibilmente a tempo con Tennent, e le loro facce avevano un’espressione di gioia sfrenata. — Non so cantare.
— Non devi aver vergogna di noi. Adesso fai parte della famiglia — disse Tennent. — Di sera ci mettiamo spesso qui a cantare, invece di guardare quelle porcate che danno in televisione. Dài, John! — Si mise a gesticolare come il direttore d’un coro. Le sue mani per poco non toccarono la faccia di Redpath. — E se la strada è dura il viaggio ti matura;/arrivi alla natura… Sììììììì…
“Io non faccio parte della vostra maledetta famiglia” pensò Redpath, ma le sue labbra avevano già cominciato a muoversi in risposta all’invito di Tennent. Il suono della propria voce che cantava quelle parole lo imbarazzava moltissimo. “Non è possibile che mi stia succedendo davvero. Cos’ho dimenticato di fare? Lasciatemi andare a letto, vi prego.”
Decise di alzarsi, di scusarsi con la massima cortesia possibile e ritirarsi in camera appena la canzone fosse finita; ma quando giunse il momento si trovò prigioniero dello stesso tipo di paralisi che lo afferrava da bambino e che lo aveva costretto ad assistere a innumerevoli funzioni religiose e concerti scolastici. Doveva solo alzarsi, mormorare le sue scuse e andare a letto; eppure, una cosa tanto semplice era al di là delle sue forze. Gli altri quattro lo opprimevano psichicamente, lo paralizzavano; e se avevano voglia di restare lì a cantare fino all’alba, lui sarebbe rimasto per forza con loro. Guardò l’orologio appeso sopra il caminetto, vide che mancava più di un’ora a mezzanotte; quasi gli sfuggì un gemito quando la compagnia finì la prima canzone e attaccò immediatamente “Lily della laguna”, con un affiatamento da maestri.
Cantavano a voce bassa, quasi con riverenza, dominati dall’assurda musicalità di Albert, che fumava continuamente e sorrideva con quel suo sorriso acromegalico, canzone dopo canzone. La signorina Connie sferruzzava incessantemente, e la massa informe di lana grigia diventava sempre più lunga. Betty York gli sorrideva, calda e incoraggiante, ogni volta che i loro occhi si incontravano. Wilbur Tennent, elegante, impeccabile, ogni tanto si metteva a dirigere il coro, e i gemelli sfavillavano, e la sua faccia grassoccia era soffusa di bonomia. A Redpath venne in mente un gruppo di alcolizzati che tentasse disperatamente di convincersi che la felicità è stare tutti assieme in un locale squallido a bere cioccolata, e si sentì soffocare ancora di più. Un insetto atterrò sulla parete di fronte a lui e cominciò a ronzare a ritmo continuo, minuto dopo minuto, come un minuscolo meccanismo che si fosse rotto e non potesse più fermarsi…
— Gente, domani è un altro giorno — annunciò improvvisamente Betty, a mezzanotte meno un quarto. — E io ho bisogno di dormire, se no divento brutta.
Si alzò, passandosi distrattamente le mani sul petto alla Liz Taylor. Guardandola, Redpath ricordò che all’inizio, incredibilmente, aveva pensato di gettarsi in un’avventura con lei. E si erano conosciuti quello stesso giorno, poco più di dodici ore prima; ma da allora erano successe tante cose. Si alzò anche lui e si girò verso la porta, tenendosi ben lontano da Betty. Temeva che lei fraintendesse le sue intenzioni, che tentasse di riportare i loro rapporti sul piano della sessualità.
Wilbur Tennent lo stava fissando con un’espressione di perplessità addolorata, tra un sorriso e una smorfia di preoccupazione.
— John, vecchio mio — gli disse — non avrai intenzione di lasciarci eh?
Redpath si agitò per un attimo. Non sapeva cosa rispondere. — No. Certo che no. Insomma…
— Bravo, John. E non scordarti di Parsnip Bridge.
— Buonanotte — disse Redpath, salutando tutti in una volta, poi corse via nel buio della casa, salì gli scalini a due e tre per volta, silenzioso e agile come una belva. Arrivò al pianerottolo del secondo piano, entrò in camera, chiuse la porta, accese la luce. Il lampadario oscillò leggermente, creando ombre inquietanti. Il sollievo di essere solo era attenuato da un fatto sconvolgente: aveva davanti una notte intera, e doveva trascorrerla in quell’ambiente inospitale, fra mobili che sembravano scelti a caso e senza nessun gusto. Per quanto si sentisse stanco, era molto improbabile che riuscisse a dormire in una stanza del genere. Si fermò accanto alla porta: la camera da letto non era riscaldata, e gli era venuta la pelle d’oca. Poi si gettò sotto la trapunta senza nemmeno svestirsi.
Dopo un paio di minuti cominciò a scaldarsi; ma il calore del suo corpo, paragonato al freddo della casa, gli faceva sembrare ancora più ostile l’ambiente. Le sue membra calde erano un avamposto solitario, minacciato da nemici attenti e implacabili.
“Nemici? Non essere stupido. Non fare resistenza. Qui sei al sicuro. Adesso fai parte della famiglia…”
Restò ad ascoltare i rumori della casa che si preparava per la notte, lo scorrere dell’acqua nelle stanze, il ronzio delle tubature, le porte che si chiudevano. Qualcuno passò davanti alla sua porta; probabilmente Wilbur Tennent, diretto in camera da letto. Poi cadde il silenzio, e Redpath si accorse che il lampadario ronzava piano, segno che l’impianto elettrico era scadente.
Pensò di uscire dal letto per spegnere la luce, ma trovarsi immerso nelle tenebre era un fatto troppo estremo e pericoloso, una situazione da rimandare finché non avesse avuto il tempo di soppesarne tutte le conseguenze.
Si rimboccò la trapunta, si sistemò in una posizione più comoda; poi, a titolo puramente sperimentale, chiuse gli occhi, per vedere se riusciva a dormire…
Fu subito chiaro che l’incubo era un incubo, per cui si trattava di roba di seconda classe. In un angolo isolato della sua coscienza nacque un senso di gratitudine, ma solo per un attimo. Stando alle regole, sapere che un sogno era un sogno avrebbe dovuto diluirne l’effetto, permettergli di tirarsi indietro e osservare con interesse indulgente i parti più recenti del suo subconscio; ma questa volta, qualcosa non andava. Si trovava di nuovo in cima a una scala e guardava un pavimento a mattonelle verdi e crema, il pavimento dell’atrio del reparto di psicofisiologia dell’Istituto Jeavons; però sapeva che in realtà quel pavimento non esisteva, perché lui aveva dato le dimissioni e non sarebbe mai più tornato all’Istituto. Eppure l’immagine era chiara, nettissima. I suoi sensi la percepivano come una parte indiscutibilmente reale del mondo esterno.
“Cosa succede? Riesco a pensare come se fossi sveglio?”
Redpath, preso da un fascino irresistibile, restò a guardare il pavimento che cambiava colore. Alcune mattonelle diventavano blu e semitrasparenti; altre si trasformavano in pezzi di ambra, rubino e citrino. Sembravano illuminate dal basso da luci che variavano continuamente d’intensità, creando toni sempre diversi; e c’era di nuovo quella sensazione di movimento, come se in ogni mattonella fosse chiuso un animale che si agitava. La visione non aveva per lui nessun significato, anzi, a paragone di alcuni degli ultimi sogni era quasi bella; eppure, mentre osservava quelle geometrie cangianti, fu preso da un senso di apprensione che lo lasciò spossato, paralizzato. Stava per succedere qualcosa, qualcosa di orribile. Era sicuro che nessuno dei terrori già sperimentati lo avesse nemmeno lontanamente preparato a quello che lo attendeva ora.
“L’ultima volta mi è andata bene. L’incubo non è cominciato. Ma adesso sta cominciando.”