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“Potrei cancellare ieri, far finta che non sia mai successo. Sarà poi così orribile perdere un solo giorno di un’intera esistenza? Ray Milland ha perso un intero week-end, e non gli è successo niente. Anzi, era un tipo sempre in forma.”

Redpath, nudo sul letto, guardava Leila che si muoveva nella stanza. Aveva le braccia incrociate dietro la testa, quattro cuscini morbidissimi sotto la schiena, e i suoi pensieri vagavano tranquillamente, perché il corpo era rilassato. Si sentiva tranquillo, sicuro. A tratti accettava l’idea che la sua mente fosse un illusionista dai poteri insospettati; altre volte si chiedeva quale tipo di lavoro avrebbe potuto trovare, oppure se Leila lo avrebbe lasciato restare per un po’. Leila aveva fatto il bagno e adesso, vestita solo della biancheria intima, riassettava la stanza. Guardandola, a Redpath era facile immaginare che si fossero appena sposati, che la vita sarebbe sempre stata come gli appariva in quel momento, una luna di miele eterna, un continuo correre tra i fiori di maggio.

“Non voglio nient’altro. Solo e sempre questo. Non chiedo poi troppo.”

— In questo giubbotto sembra che tu ci abbia dormito dentro — disse Leila, afferrando il giubbotto di pelle scamosciata. — Non sarebbe ora di farlo lavare?

Lui respinse l’idea con una mossa del piede. — Far lavare la pelle scamosciata costa una fortuna. Dovevano avvisarmi, quando l’ho comperato.

— E poi ti riempi le tasche di porcherie.

— Porcherie? Porcherie? — Redpath guardò le tasche rigonfie del giubbotto e ricordò che per la seconda volta aveva lasciato passare quasi un giorno intero senza prendere la solita dose di anti-convulsivi. — Vuoi guardare nella tasca destra e vedere se c’è un boccettino di capsule?

Leila infilò la mano nella tasca, tirò fuori un boccettino di medicinali, un tagliaunghie, il lucchetto e la catena della bicicletta di Redpath che era scomparsa, un pennarello, un distributore di filo interdentale, e un pezzo di carta triangolare che sembrava strappato da un giornale.

— Adesso chiedi scusa per la battuta sulle porcherie — disse Redpath, magnanimo. Stava scendendo dal letto per prendere l’Epanutin, quando si accorse che Leila stava fissando il pezzo di giornale a occhi spalancati. Aveva un’espressione pensierosa, e lui si sentì balzare il cuore in petto.

— John? — La voce di Leila era debole, incerta. — Dove l’hai preso?

— Cos’è? — Si alzò, le tolse di mano il pezzo di carta. Era l’angolo di una pagina di giornale, come immaginava; ma i caratteri tipografici era strani, distorti. Non gli sembrava di averli mai visti. La testata del giornale diceva: “Gilpinston Bugle, martedì 26 agosto 1980”.

Nell’attimo di silenzio che seguì, Redpath sentì il sangue che gli martellava implacabile nelle orecchie.

— Te l’ho già detto dove l’ho preso. — Ricadde a sedere sul letto, incapace di distogliere gli occhi da quelle righe di stampa. — A Gilpinston, nell’Illinois. Ci sono stato ieri. Ho cercato di afferrare il giornale, e quel pezzo dev’essermi rimasto in mano.

— John, ti prego, non…

— Come lo spieghi, Leila? Sei capace di spiegarlo?

Lei si sedette al suo fianco, gli mise le mani sulle braccia, lo strinse forte come per dargli sostegno. — John, ti prego, non ricominciare. Henry non aveva detto che Gilpinston esiste sul serio? Non ha detto che devi aver visto quel nome da qualche parte e aver assorbito l’informazione? Quindi…

— Ma guarda la data, per amor di Dio! — Redpath le mise sotto gli occhi il pezzo di carta. — È la data di ieri! Non capisci?

— In Inghilterra arrivano i giornali americani. Viaggiano per via aerea…

Redpath l’interruppe, trionfante, quasi urlando. — Da una piccola città dell’Illinois a un posto come Calbridge! In un giorno!

Leila tolse le mani dalle sue braccia. — C’è qualcosa che non quadra.

— È quello che ti ho sempre detto. — Redpath scattò in piedi e cominciò a passeggiare su e giù per la stanza, spinto dalla forza delle idee formate a metà che gli volteggiavano in testa. — Sai cosa significa, non è vero? Basta accettare un paio di idee nuove, poi diventa semplicissimo. Significa che Albert, il caro Albert, riesce a spostarsi con la sola forza del pensiero. In un istante può andare dove vuole. L’ha fatto al parco la prima volta che l’ho visto, e io non me ne sono accorto. Non se ne accorge nessuno, perché se ne va in giro con quella vecchia tuta marrone, e se te lo vedi spuntare davanti all’improvviso automaticamente pensi che ci fosse già, che eri troppo preso dai tuoi pensieri per accorgerti di lui. E ti dirò di più: può portarsi dietro altra gente! Ecco come ho fatto ad andare e tornare da Gilpinston, ieri. E stato Albert. Credo di non piacergli. Voleva spaventarmi a morte, e c’è riuscito. Dio, se c’è riuscito!

Le parole gli uscivano di bocca sempre più in fretta, le frasi diventavano sempre più brevi, perché c’era così poco tempo, perché le idee erano moltissime. Capì che il suo autocontrollo era saltato, che l’istinto galoppava più forte della ragione, ma non poteva farci niente. I suoi movimenti divennero frenetici, inconsulti.

— Stammi a sentire, Leila. Henry Nevison perde il suo tempo, all’istituto. Dovrebbe andare a Raby Street, se vuole studiare la parapsicologia. Quella casa! Stamattina ho pensato che fosse un ricovero per mostri in pensione, ma non sapevo di essere tanto vicino alla verità… Hanno tutti dei poteri. Poteri strani. Albert è capace di teleportare le persone. E Wilbur Tennent è chiaroveggente. Precognizione. La signorina Connie è un po’ come Albert, solo che trasporta oggetti. Si chiama psicocinesi, o telecinesi… E poi c’è Betty York. Non capisco cosa… Sì, lo so! E la componente fisica dell’insieme. È quello che Henry definirebbe il soma. Si prende cura degli altri, bada che mangino e via dicendo. E ha anche altri compiti. Ieri al parco non l’ho incontrata per caso. Era venuta a cercarmi. A cercarmi! Anch’io sono un mostro. Sono telepatico, e alla casa mancava un telepate. Forse è morto. Ci scommetto che quel Prince Reginald, quel tale per cui la polizia vuole interrogare Wilbur, abitava lì, e ci scommetto che è morto, e ci scommetto che io dovevo sostituirlo… Le capsule, Leila! Dammi le capsule! — Leila era pallida, preoccupata. Redpath la guardò, scosso. Prese dalle sue mani il flacone di Epanutin, e all’improvviso la carica nervosa che si era impossessata di lui sembrò svanire. Sorridendo debolmente, sedette accanto a lei sul letto, aprì il flacone con dita tremanti. Si sentiva malissimo, aveva freddo. — Sto bene — disse. Poi si infilò una capsula in bocca e l’inghiottì. — Non avere paura.

— Non ho paura.

— Questo attacco di follia mi passerà presto.

Lei gli sorrise, poco convinta. — È già passato.

— Leila — disse Redpath, dolcemente, lentamente — io credo ogni parola di quello che ti ho detto. Non capisco tutto, però ci credo. In uno degli incubi ho sognato che la casa era viva, e che la cantina era il suo stomaco… È ridicolo, certo, però l’analogia funziona. La casa e quelle persone sono una specie di essere multiplo, e vogliono che io entri a far parte della famiglia. Adesso penso che siano stati loro a farmi credere di averti assassinata, per costringermi a correre da loro, anche se non so come abbiano fatto. Forse esiste un membro della famiglia che non ho ancora incontrato, ma il punto è che rientrava tutto in un piano. Non capisci?