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— Non riuscirò a parlare per molto — sussurrò, preso dal panico. — Quel mostro mi sta ascoltando. Non perdere tempo a fare le valigie, Leila. Prendi il passaporto e le carte di credito e tutti i soldi che hai. Se parti subito puoi raggiungere l’aeroporto di Londra appena dopo mezzanotte. Con un po’ di fortuna puoi partire per Chicago prima dell’alba. Appena sarai arrivata prendi…

— Chicago! — Leila scosse la testa, indietreggiò. — Non posso!

— Non discutere! — La voce di Redpath era fortissima, nello spazio angusto della cucina. Il suo sguardo vagava follemente dalla faccia di Leila al coltello sul tavolo. — Perché stai a discutere? Puttana! Cosa vorresti fare?

— John, io… — Leila lo fissò per un attimo a occhi spalancati, poi corse in soggiorno.

Redpath bestemmiò, impazzito, furioso; poi prese il coltello e l’inseguì.

8

Il motore della mini, alimentato dalla batteria nuova, si accese subito, pronto a scattare. L’auto vibrò, tremò, ma dopo un attimo il motore si spense. Leila Mostyn continuò a far girare il motorino e a premere l’acceleratore, finché non si rese conto di aver ingolfato il motore. Smise coi tentativi di accensione, cercò di calmare l’affanno, si girò a guardare la casa. La luce delle scale esterne era accesa. Da un momento all’altro poteva comparire quell’apparizione incredibile, mostruosa, curva, con gli occhi spenti, che un tempo era John Redpath. Se l’avesse visto, probabilmente avrebbe perso ogni autocontrollo. Leila si morse le labbra, contò lentamente fino a sessanta, girò la chiave. Il motore partì.

Accese i fari, uscì dal parcheggio, infilò Leicester Road, diretta in centro. Aveva in mente di andare subito al posto di polizia; ma quando si trovò a qualche centinaio di metri dalla casa, protetta da quell’involucro di metallo che le permetteva di sfuggire a tutto, la paura diminuì gradualmente. Ricominciò a pensare nei termini consueti. Conosceva bene John Redpath. A prescindere da quello che gli era successo o da quello che qualcuno gli aveva fatto, l’idea di consegnarlo alla polizia, di vederlo chiuso in prigione, tranquillizzato a furia di calmanti, vivisezionato cerebralmente, le sembrava un tradimento mostruoso. Era pazzo, oscenamente pazzo, tanto che la paura l’aveva quasi spinta a ucciderlo a coltellate; ma doveva trattarsi di una follia passeggera, scatenata dalle droghe che gli avevano iniettato all’istituto.

Decise di consultare Henry Nevison. Henry le avrebbe dato ottimi consigli, sottolineati da frasi roboanti, tranquillizzanti. “Se fosse dimostrato che il Composto Centottantatré ha proprietà psicosomimetiche…” Eccetera eccetera.

All’idea di poter trasferire il fardello delle responsabilità sulle spalle di Nevison, che in effetti era l’unico colpevole, Leila diminuì la velocità. Subito le vennero in mente altre riflessioni. Se avesse interpellato la polizia, sarebbe scoppiato uno scandalo. I giornalisti si sarebbero gettati come avvoltoi su quella storia di strani esperimenti alla Boris Karloff, follia, dischi volanti, fatti di sangue in un nido d’amore. Ne avrebbero risentito tutti, protagonisti e comparse. Ne avrebbero sentito parlare persino i suoi genitori, a Pangbourne.

Prese una decisione. Al primo incrocio svoltò a sinistra, e poi di nuovo a sinistra. Stava tornando indietro, su una via parallela a Leicester Road. All’incrocio successivo girò di muovo a sinistra, arrivò in fondo alla strada, si fermò quasi all’angolo. Da lì riusciva a vedere l’ingresso del suo appartamento. Spense le luci, ma lasciò acceso il motore. Se John usciva e la vedeva, voleva essere in grado di ripartire subito, perché le era impossibile prevedere cosa potesse succedere. Le sue esplosioni di furia degli ultimi minuti erano già terrificanti; ma Leila capiva che non erano niente a paragone di quello che avrebbe fatto se avesse saputo che lei non stava correndo all’aeroporto di Londra, per raggiungere Gilpinston via Chicago.

Leila rabbrividì involontariamente, si strinse nella giacca. L’assalì il ricordo degli ultimi minuti con John: era piombato nell’irrazionalità più completa, l’aveva rincorsa brandendo il coltello mentre lei cercava il passaporto, si era messo a borbottare frasi incoerenti…

“Ricorda l’indirizzo, Leila… Io posso sconfiggere il grande burattinaio, ma lui non lo sa… Vai subito a Gilpinston… Il nato-Tre-Volte è troppo vicino… Noleggia un’auto, se è necessario… Riempi le bottiglie di benzina e tappale con degli stracci… Io riesco a sfuggire al suo controllo, ma il nato-Una-Volta non lo sa… Le due case devono esplodere contemporaneamente… Possiamo ucciderlo, Leila… Domani a mezzanotte, cioè alle sette dell’Illinois… Non temere, le bottiglie non ti esploderanno in mano… Abbi fede, abbi fede in me… Dài fuoco agli stracci e lancia le bottiglie dalla finestra… Il nato-Tre-Volte saprà cos’è successo…”

E poi, come ultimo tocco di follia, c’era stata la storia del televisore, assurda, incomprensibile. John aveva maneggiato i comandi sul retro dell’apparecchio, aveva trovato il dispositivo di regolazione verticale del quadro, glielo aveva indicato, l’aveva costretta a inginocchiarsi davanti al televisore e a prendere in mano il comando. Aveva acceso l’apparecchio, si era voltato di schiena coprendosi la faccia con le mani, e le aveva ordinato di girare il comando sul massimo, in modo che l’immagine rotolasse di continuo, così in fretta che non si capisse più cosa stavano trasmettendo.

— L’immagine gira? — le aveva chiesto timidamente. — lo non oso guardare.

In quel momento, e solo per un momento, la compassione per lui aveva quasi sopraffatto il senso di paura che urlava nei corridoi molecolari del suo sistema nervoso. Lui le era parso indeciso e vulnerabile come un bambino, e lei sapeva che questo gli succedeva quando si trovava di fronte a ostacoli imprevisti, e aveva osato sperare che quell’ombra oscura lo lasciasse. Ma, appena spento il televisore, l’aveva trascinata alla porta d’ingresso e gettata sul pianerottolo. La sua faccia era stravolta, inumana.

“Corri, Leila! Per amor di Dio… Per amor di tutti… Corri!”

Guardando la strada immersa nella tranquillità della notte, la fila di cancellate, gli alberi che alla luce dei lampioni sembravano possedere foglie di plastica, Leila cominciò a chiedersi se non fosse meglio andare subito da Henry Nevison. Aveva visto John infilarsi il giubbotto e aveva concluso che stesse per uscire; ma erano possibili deduzioni logiche, nel suo caso? Erano passati già diversi minuti, e a quanto pareva lui era ancora in casa. Strinse le mani sul volante, diede un colpo all’acceleratore; e in quell’istante ci fu un movimento sul lato opposto della via.

John Redpath apparve sotto il lampione e si incamminò verso il centro. Camminava piano, come un vecchio, e teneva il braccio sinistro premuto contro il fianco. Con la destra reggeva un oggetto che lei dovette guardare due volte per riconoscere: il suo televisore portatile. A testa bassa, con le spalle chine, apparentemente ignaro di tutto quello che lo circondava, Redpath scivolò di lampione in lampione. Leila sentì di nuovo la stessa compassione, e fu come un dolore fisico. Lo guardò scomparire lungo il tunnel della prospettiva, poi ripartì e parcheggiò davanti a casa.

Arrivata sul pianerottolo, scoprì che John aveva lasciato la porta aperta e le luci accese. Chiuse a chiave, prese il telefono, formò il numero di Nevison. Le rispose subito, e lei cominciò a parlare; poi si accorse che si trattava solo della segreteria automatica. Lasciò il suo nome, pregò Nevison di richiamarla subito, e rimase lì vicino al telefono per un altro minuto. Stava disperatamente cercando di pensare a qualcuno che potesse aiutarla. Probabilmente a quell’ora Frank Pardey non era in ufficio; e se anche ci fosse stato, come poteva dirgli che John era impazzito, l’aveva sbattuta fuori di casa e le aveva rubato il televisore, però non voleva denunciarlo?