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Era andato al pronto soccorso dell’ospedale di Calbridge, dove il suo arrivo appena dopo l’ora di chiusura dei bar aveva dato l’impressione che lo avessero ferito in una zuffa. Solo il fatto che lui fosse perfettamente sobrio e la sua aria di rispettabilità avevano convinto il giovane medico a non chiamare la polizia, ad accettare la storia che si era ferito con uno scalpello per il legno. Lo avevano ripulito, gli avevano dato i punti, messo il disinfettante, lo avevano bendato, gli avevano fatto l’antitetanica e dato un sacco di raccomandazioni. Poi gli avevano scritto una ricetta e l’avevano rispedito a casa con l’ambulanza. Nella tranquillità neutra, dolcissima, del suo appartamento si era infilato nel letto freddo; e aveva dormito fino all’alba.

Risvegliandosi in una luce grigiastra, coi fantasmi delle impressioni sensoriali che cominciavano a piovergli addosso da tutto il palazzo, Redpath capì subito che gli effetti extrasensoriali ESP del Composto Centottantatré non erano ancora svaniti.

E capì anche che la sera prima, esausto e cerebralmente sovraffaticato com’era, aveva scoperto la tattica migliore per affrontare la situazione. Il trucco stava nel non pensare in maniera logica al suo piano, nel diventare un automa, uno zombie. La cosa nella cantina di Raby Street, il nato-Una-Volta, era ancora legato a lui, come gli aveva dimostrato il mostruoso momento di esistenza triplice, con tutte le sue rivelazioni; ma il legame non sarebbe mai stato completo come l’alieno desiderava, perché fra menti tanto diverse non esistevano i punti di contatto indispensabili.

Era il rapporto quello che mancava, decise. Su certi livelli esisteva una sorta di comunicazione, ma non c’era rapporto, e finché le cose stavano così lui sarebbe rimasto se stesso, avrebbe pensato con una parte del suo cervello, lasciando che un’altra parte guidasse le sue azioni. Sempre ammettendo che riuscisse a tenere sotto controllo le sue azioni…

“La famiglia mi vuole. Forse mi stanno cercando! Che diavolo potrei fare se Albert mi apparisse qui davanti?

“E quanto tempo resta? Quanto tempo, prima che arrivi la megamorte?”

Galvanizzato dal senso d’urgenza della sera prima, Redpath scostò le lenzuola e rotolò di lato. Il dolore della ferita lo colpì all’improvviso, intensissimo. Più cauto, si alzò, si massaggiò il fianco, indossò un maglione leggero e un paio di calzoni puliti. La luce del giorno aumentava d’intensità. In lontananza passò il camioncino di un lattaio, segno che la città si stava risvegliando. Prese la borsa da ginnastica in finta pelle, v’infilò dentro i cinque fazzoletti che possedeva e chiuse la cerniera lampo. Senza perdere tempo a mangiare o a radersi, raccolse la borsa e il televisore di Leila (non era troppo pesante, ce l’avrebbe fatta) e uscì.

La minuscola fetta di quartiere che vedeva dalle finestre del corridoio era perfettamente normale, come sempre. Gli alberi, il parcheggio sul retro, il cortile del negozio pieno di piedistalli per lampadari, la fila di case e garage: tutto gli inviava lo stesso messaggio, e cioè che solo quello era il vero universo, sicuro, immutabile, e che pensare diversamente era follia. Redpath distolse gli occhi, scese le scale, arrivò in strada. A quell’ora il traffico era scarso, c’erano solo pochi operai che andavano in fabbrica in bicicletta o in macchina; nessuno si sarebbe accorto di lui anche se girava con un televisore in mano.

Appena gli fu possibile svoltò in una via laterale, e quello fu l’inizio di una giornata di vagabondaggi casuali, nel tentativo di confondersi fra la gente.

A metà mattina comperò quattro litri di benzina a un garage, dove gli fecero pagare venti penny di deposito per una tanca ammaccata che un tempo conteneva olio per auto. Poco dopo acquistò un accendino e quattro bottiglie da un litro di limonata. A corto di soldi, troppo carico per continuare a girare, decise di trascorrere il resto della giornata in un parco. Il più vicino era il Churchill, ma se Betty York e gli altri lo stavano cercando senz’altro ci sarebbero andati, e lui non voleva incontrarli prima di essere pronto.

Raggiunse un parco più piccolo, prediletto dai pensionati perché non conteneva la zona-giochi per bambini. La giornata era calda, dolce, ideale per prendere il sole. Si sistemò con tutte le sue cose al centro di una distesa d’erba, sicuro che nessuno, e tanto meno la polizia, lo avrebbe notato. Si tolse il giubbotto e il maglione, si sdraiò qualche minuto per calmare il dolore pulsante della ferita, poi bevve un po’ di limonata. Calmata la sete, vuotò le bottiglie sull’erba e le riempì di benzina. Le tappò, le infilò nella borsa, avvolte nei fazzoletti che li sarebbero serviti da miccia.”

Dopo di che, preparato quel modesto arsenale, si sdraiò e cercò di svuotare la mente, cosa che si dimostrò eccezionalmente difficile.

Il cielo blu aveva lo stesso aspetto di sempre, ma adesso lui sapeva che era una finestra aperta sullo spazio, una finestra da cui altri occhi potevano guardare giù. Il breve contatto con l’inseguitore alieno gli aveva fatto capire che era vicino alla Terra, ma quanto vicino? Ed era possibile che in quello stesso momento, mentre lui era lì sdraiato, quella volta blu, eterea, diventasse il teatro della prima battaglia interstellare della storia umana? L’inseguitore, il nato-Tre-Volte, dimostrava un’indifferenza totale per le forme di vita diverse dalla sua; forse si sarebbe sorpreso di incontrare oggetti in orbita che rilevavano la sua presenza. Redpath dubitava che i satelliti laser, ammesso che esistessero, potessero qualcosa contro un’astronave; ma se la nave aliena arrivava a portata dei missili nucleari le cose potevano prendere una piega imprevedibile. A meno che l’astronave non potesse rendersi invisibile ai radar, magari assorbendo tutte le radiazioni incidenti.

“I fattori sconosciuti sono troppi, e poi io non so niente d’astronautica. E sto pensando a cose che non dovrei pensare…”

Nel tardo pomeriggio vide un jet che volava verso ovest, lasciando una sottile scia bianca in cielo, e si chiese come se la stesse cavando Leila. Gli venne in mente che avrebbero dovuto darsi un appuntamento telefonico, per tenersi informati. Così, invece, era costretto ad andare avanti da solo secondo i tempi previsti, sperando che lei avesse avuto il tempo di raggiungere Gilpinston e…

“Sto pensando di nuovo! Facciamo un elenco. Dieci star del cinema col cognome che inizia per A. Bud Abbott. Non c’è bisogno che siano star… John Abbott. John Agar. Brian Aherne. Woody Allen…”

Poco dopo le sei l’aria si raffreddò notevolmente e un banco di nubi avanzò dalle montagne, annunciando mutamenti atmosferici. Redpath si rimise il maglione e il giubbotto e restò al parco per un’altra ora. Mentre si preparava a ripartire scoprì, felice, di avere soldi a sufficienza per una tazza di tè caldo. S’incamminò lentamente verso il centro, mentre un buio prematuro per la stagione si addensava all’orizzonte, e prese un tè in un locale deserto. Era troppo forte e troppo dolce. Fu quasi un piacere nostalgico assaporarlo in tutti i suoi difetti.

Quando arrivò a Woodstock Road cadevano le prime gocce di pioggia, e l’aria era impregnata dell’odore di polvere. I bambini abituati a giocare per strada tornavano in casa, forse lieti di quella pioggia improvvisa che li costringeva a occuparsi ancora delle cose fra cui avrebbero trascorso l’inverno. Quando Redpath lasciò la via principale per imboccare il labirinto di stradine laterali, vide dietro molte finestre un’esplosione di luci calde, colorate. Tutti accendevano stufe, radio e televisori; le pentole cominciavano a bollire. La gente faceva una delle cose che sapeva fare meglio: obbediva alle memorie razziali, si ritirava in fondo alla caverna, al caldo. Era una serata magnifica per sbarrare le finestre, mettere le poltrone attorno al fuoco e restarsene in compagnia a chiacchierare, magari a cantare…

“C’è qualcosa che non va. Dovrei avere paura, e invece non sento niente. Non coverò il desiderio di tornare a far parte della famiglia?”