Dietro gli occhi di Redpath si agitò qualcosa.
“Se mi controlla meglio quando sono più vicino, se la sua forza cresce all’inverso del quadrato delle distanze, come riuscirò a …?”
Svoltò in Raby Street, la borsa piena di Molotov in una mano e il televisore nell’altra. Raggiunse il numero centotrentuno, come chi torna a casa dopo la lunga giornata di lavoro. Grosse gocce di pioggia precipitavano come proiettili sulle cartacce del giardino mal tenuto, tracciavano linee sulle finestre polverose, incrostavano di gioielli il muschio della facciata. Le tendine erano tirate sul bovindo, ma Redpath sapeva che la casa era di nuovo viva. Nella sua testa si agitava il serpente. Salì gli scalini davanti all’entrata, ma mentre stava per posare le sue cose gli venne ad aprire Wilbur Tennent, signorile, splendido nel suo vestito grigio chiaro. Dietro di lui, immobile sulla soglia del soggiorno, era visibile Betty York, ancora vestita come due giorni prima.
— Che piacere rivederti, John. — Tennent fece entrare Redpath nell’atrio, in una nuvola di acqua di colonia e dopobarba, e si girò verso Betty. — Te l’avevo detto che sarebbe tornato.
Lei gli si avvicinò, sorridente. — Vedo che hai portato le tue cose, tesoro. Ti do una mano.
— Ce la faccio da solo — disse Redpath, stringendo forte la borsa. — Porto questa roba in camera, se non vi spiace.
— Ma certo. Poi scendi subito. È quasi pronto da mangiare.
— Che bel televisore — commentò Tennent. — John e io potremo guardarci le corse di cavalli.
— Lascialo in pace. — Betty spinse via Tennent, lasciando libero il cammino per Redpath. Mentre passava davanti alla porta del soggiorno, Redpath diede un’occhiata dentro e vide che i mobili erano tutti al loro posto. La signorina Connie e Albert erano seduti sulle loro poltrone. Fissavano il rettangolo di vetro dietro cui ardeva il fuoco della stufa a gas. Non parvero nemmeno accorgersi del suo arrivo.
— Scendo fra un minuto — disse a Betty. — Appena ho messo a posto la mia roba.
— D’accordo, tesoro. — Betty entrò in soggiorno e chiuse la porta, lasciandolo solo nell’atrio.
Redpath portò la borsa e il televisore fino al secondo piano, oltrepassò le altre porte, entrò nella camera che Betty York gli aveva mostrato alla sua prima visita. Tutto era esattamente come lo ricordava, persino il linoleum rosa sporco di marrone. Mise il televisore su un cassettone, la borsa su una sedia, l’aprì e restò un attimo a fissarne il contenuto, perplesso.
“Quattro bottiglie di… benzina. È roba pericolosa. Forse dovrei avvisare Betty, chiederle di buttarle. Non vorrei correre il rischio di un incendio. Specialmente qui, dove sono al sicuro. Quel pezzo di ghiaccio di Leila si meritava tutto quello che le ho fatto, ma la polizia non la penserà così. Quando troveranno il cadavere cominceranno a cercarmi, ma qui non mi succederà niente. Qui sono al sicuro… Con la mia famiglia.”
Redpath si sentì improvvisamente vacillare. Dovette fare uno sforzo per non perdere l’equilibrio. Si portò le mani agli occhi, premette le dita per calmare un dolore che non era esattamente un dolore; e per un attimo gli apparve una serie di immagini contrastanti. C’era la schiena snella di Leila, nuda, sfigurata dalle coltellate; c’era un’altra immagine, confortante eppure inquietante, di Leila che stringeva un libretto nero che sembrava un passaporto; e al di sopra di tutto c’era una scacchiera trasparente di pannelli colorati, con luci che si accendevano e spegnevano in fretta, creando disegni complessi, urgenti. Quei disegni danzavano davanti ai suoi occhi con la velocità del vento che spazza un campo di grano. Ebbe la sensazione di qualcosa che stava per accadere, di un pericolo terribile, ma passò subito. Abbassò le mani, guardò la stanza, annuì soddisfatto, scese le scale per raggiungere gli altri che lo aspettavano.
“Qui va tutto bene” pensò. “Qui sono al sicuro con la mia famiglia.”
10
Un giorno d’attesa snervante ai voli internazionali dell’aeroporto Heathrow aveva lasciato Leila Mostyn più stanca di quanto non ritenesse possibile.
C’era sovrabbondanza di passeggeri diretti in America. Molti erano ragazzi che sembravano aver deciso all’improvviso di partire, e acquistare un biglietto non era stato facile. Non era riuscita a trovare posto sul primo aereo in partenza per Chicago. Aveva rinunciato ad alcune possibilità di volo con scali intermedi in favore di un volo extra che doveva partire a mezzogiorno. Tenuto conto dei fusi orari, sarebbe arrivata all’aeroporto O’Hara di Chicago verso le tre del pomeriggio, ora locale, col che le restavano quattro ore per raggiungere Gilpinston. Sarebbe stato meglio avere più tempo a disposizione, specialmente perché sapeva che i controlli all’ufficio immigrazione USA potevano essere molto lenti; ma a quel punto la cosa le sembrava ragionevole. Pensava di farcela.
Poi la situazione aveva cominciato a precipitare. Dapprima avevano annunciato che un guasto alla torre di controllo di Francoforte avrebbe ritardato l’arrivo del suo aereo di due ore. Leila era rimasta distrutta, vedendo che il tempo disponibile si dimezzava; ma ormai era troppo tardi per prendere un volo a scali intermedi. Con lo stomaco sconvolto da una sensazione di disagio, aveva cercato di modificare i suoi piani in rapporto alla scarsezza di tempo. Aveva mangiato qualcosa allo snack, e stava cercando di calmarsi con un bicchiere di vermouth, quando venne annunciata un’altra ora di ritardo. Qualche passeggero fece commenti ironici.
Erano riusciti a salire sull’aereo quando erano quasi le tre, e ormai lei si sentiva tesa, nervosa, ansiosa. L’uomo seduto al suo fianco aveva tentato di iniziare una conversazione, ma Leila gli aveva risposto con tanta freddezza e distrazione da costringerlo a dedicarsi a una rivista. Pochi minuti dopo, un capitano evidentemente imbarazzato aveva spiegato per altoparlante che l’arrivo in ritardo aveva causato problemi per il rifornimento di carburante, e che bisognava aspettare quarantacinque minuti prima che l’aereo fosse pronto a partire. La notizia aveva suscitato altri commenti ironici e aumentato, per una specie di strana reazione, l’allegria dei passeggeri più giovani. Qualcuno si era alzato, si era messo nei corridoi scambiando battute sarcastiche con gli amici.
Leila si era chiusa in una sfera di solitudine, separandosi da un ambiente che ormai le sembrava stupido e ostile, pieno di grida e risate assordanti, di cose e odori sconosciuti, di sibili pneumatici e gemiti idraulici. Quello era un mondo di gente normale che faceva cose normali, e lei ne era esclusa. Aveva paura di pensare troppo a quello che stava per fare; e fino a che le enormi portiere non si erano chiuse, sigillando l’aereo, aveva provato il desiderio di alzarsi e scendere. Solo quando si accesero i motori, facendo tremare il pavimento e i braccioli del sedile, lei permise al fiume di pensieri di riversarsi nella sua mente.
“Cosa mi hai fatto, John? Le cose che stanotte ho accettato come prove solo perché ero del tutto sconvolta non sono affatto prove. Un pezzo di giornale con la data sbagliata, un paio di coincidenze strane…
“Mio Dio, cosa sto facendo? Andrò a finire in galera, ecco cosa! Parto per gli Stati Uniti per andare a bruciare una casa con le bombe molotov. Mi chiuderanno in carcere, non uscirò più!”
Leila fissava due steward che stavano cercando di infilare un grande contenitore d’alluminio per cibi caldi nell’apposito scomparto. La sua mente era talmente sottosopra che solo dopo dieci minuti di vani tentativi da parte degli steward, Leila capì che la sequela d’inconvenienti e ritardi per quel volo non era ancora terminata. Il contenitore d’alluminio continuava a bloccare un corridoio, e l’aereo non s’era mosso di un millimetro.
Un’hostess cercò di dare consigli ai due steward, che la cacciarono in malo modo. L’hostess si arrabbiò. I due rinnovarono gli sforzi per sistemare il contenitore, lo presero a pugni, a spallate, facendo un gran fracasso. Arrivarono un altro steward e un membro dell’equipaggio. I quattro cominciarono a discutere sottovoce, e l’udito acuto di Leila captò due parole: “tecnico” e “dissigillare”. Il suo cuore cominciò a battere più forte.